Chiuse le indagini sul crac della Divina Provvidenza di Bisceglie: 28 indagati fra cui anche l'ex sindaco di Molfetta sen. Antonio Azzollini e l'ex dirigente comunale Giusi De Bari
Malgrado la negazione dell'arresto la posizione del parlamentare di centrodestra resta pesante, perché, secondo i magistrati, avrebbe fatto pesare la sua influenza sull'ex ospedale psichiatrico
MOLFETTA – Chiusura delle indagini a tempo di record, considerati i tempi lunghi di altre inchieste della magistratura, per l’operazione “Ora pro nobis”, il crac da 500 milioni di euro alla Casa della Divina Provvidenza di Bisceglie (con sedi anche a Foggia e Potenza). Sono 28 le persone indagate fra cui l'ex sindaco di Molfetta sen. Antonio Azzollini (ex Forza Italia, oggi Ncd), per il quale per il quale il gip del Tribunale di Trani Rossella Volpe aveva chiesto, il 10 giugno scorso, l'arresto inviando l’istanza al Senato, che non la concesse. Arresto negato anche dalla Cassazione che rinviò al Tribunale del Riesame la richiesta dei domiciliari.
Oltre ad Azzollini, tra i cittadini di Molfetta coinvolti nella vicenda, c’è anche Giuseppe (detto Giusi) De Bari, già dirigente del settore economato del Comune di Molfetta all’epoca dell’amministrazione di centrodestra presieduta da Azzollini. De Bari è indagato insieme agli altri ex direttori generali Dario Rizzi, Antonio Albano e Giuseppe D’Alessandro. Altri indagati importanti sono la ex madre superiora suor Marcella Cesa e suor Consolata Puzzello (a capo della Casa di procura Istituto Ancelle della Divina Provvidenza, considerata la cassaforte dell'ente), i consulenti Antonio Battiante, Lorenzo Lombardi, Antonio Damascelli, Rocco Di Terlizzi e Augusto Toscani, Adrijana Vasiljevic (jugloslava dipendente dell'ente a Foggia) e Angelo Belsito (considerato amministratore di fatto).
A condurre l’inchiesta sono il capo della Procura tranese Carlo Maria Capristo, il suo vice Francesco Giannella e il magistrato Silvia Curione. Ci sono anche nomi nuovi fra gli indagati che avrebbero concorso alla bancarotta fraudolenta: Agatino Lino Mancusi, ex consigliere, assessore e vicepresidente della giunta regionale della Basilicata, del direttore amministrativo Marcello Paduanelli e dell’amministratore delegato dell’Ambrosia Technologies, società fornitrice di pasti e servizi di pulizia, Luciano Di Vincenzo. Gli altri indagati sono Silvia Di Gioia (figlia del deputato foggiano Raffaele Di Gioia, che ottenne un incentivo all'esodo nonostante si fosse dimessa volontariamente), Arturo Nicola Pansini, suor Daniela Dell’Olio, suor Carla Sabia, suor Stefanina Ulderico, suor Gianna Bochicchio, Michele Perrone, Nicolangelo Cosmai, Felice Stolfa, Ignazio De Iudicibus e Andrea Sasso.
Secondo i magistrati l’ex ospedale psichiatrico sarebbe stato una sorta di “salvadanaio privato”, un “pozzo senza fondo” le cui casse erano “destinate a non esaurirsi poiché costantemente irrorate per effetto dei benefici economici scaturenti dai vari interventi legislativi che hanno finora impedito il default”.
Insomma, per i Pm si trattava di un’associazione per delinquere, anche “preda di poteri forti e di trame politiche”. A far partire fu la richiesta di fallimento dell’ente, dopo la disponibilità alla collaborazione offerta della Banca vaticana (ex Ior) e dell’ordine di massima trasparenza delle cose vaticane, impartito da Papa Francesco. Secondo la procura ci sarebbero state numerosi casi di appropriazioni, sperperi, stipendi faraonici, epurazioni di lavoratori non graditi, assunzioni clientelari, anche di dipendenti inutili, soprattutto perché contemporaneamente venivano effettuati tagli di personale per ottenere ammortizzatori sociali.
Nell’avviso di conclusione delle indagini, compaiono sono anche altri nomi di politici, anche se non indagati, per alcuni presunti favori a sindacalisti e al cognato del sen. Francesco Amoruso e a un conoscente dell’ex parlamentare europeo, sempre biscegliese Sergio Silvestris.
La magistratura ha anche ordinato alcuni sequestri fra cui il conto corrente di 561mila euro della causa di canonizzazione del fondatore don Pasquale Uva, che, sempre secondo l’accusa, sarebbe stato gestito in modo “subdolo”dalle Ancelle: non in riferimento alle spese necessarie alla pratica di beatificazione del Venerabile, ma come un vero e proprio conto segreto che veniva alimentato da versamenti di denaro proveniente da donazioni di fedeli e dal pagamento delle copie delle cartelle cliniche di pazienti. Sono stati anche sequestrati 27 milioni di euro di Casa di Procura, definita la “cassaforte” dell'ente, che secondo gli inquirenti sarebbe servita a mettere al sicuro ingenti capitali.
Novità anche per la madre superiora suor Marcella Cesa. La Cassazione ha accolto in parte il suo ricorso col quale Rita Cesa (nome della religiosa prima di prendere i voti) vuole ridimensionare le accuse a suo carico di associazione per delinquere finalizzata alla bancarotta e induzione indebita. La Suprema Corte, con la sentenza 9545 depositata oggi e relativa all’udienza svoltasi lo scorso due dicembre, ha annullato con rinvio l'ordinanza con la quale il Tribunale di Bari, il 2 luglio, aveva confermato gli arresti domiciliari per suor Marcella. Ad avviso dei supremi giudici è necessario che sia meglio approfondito il ruolo della ex superiora che nel frattempo rimane in custodia cautelare.
In particolare, la Cassazione sottolinea che il Tribunale di Bari ha ritenuto che la nascita dell’associazione per delinquere risalirebbe «all’estate del 2009 su iniziativa dell’Azzollini e di alcuni suoi accoliti, che si sarebbero sostanzialmente “impossessati” della gestione della Congregazione», mentre a suor Marcella è mossa l’accusa di essere stata la promotrice del sodalizio criminale fin dal 1999 «ben prima della comparsa dell’Azzollini».
La questione delle date - rileva la Cassazione - non è «irrilevante» dal momento che «ciò che implicitamente sembra presupporsi» è che «in definitiva» solo nel 2009 «si sia realizzato l’accordo associativo e non già la mera adesione dell’uomo politico e della sua variegata “corte” ad un sodalizio già attivo, di cui lo stesso avrebbe assunto la guida».
«Ma se nessuna associazione preesisteva alle vicende consumatesi nell’estate del 2009 e se l’iniziativa della sua costituzione deve essere attribuita all’Azzollini, come per l'appunto sembra implicitamente ritenere il tribunale, non appare dimostrata - argomenta la Cassazione - l’effettiva intenzione dell’indagata di aderirvi».
Intenzione che, prosegue il verdetto, «non è esclusivamente deducibile dall’eventuale concorso» di suor Marcella «nei presunti reati fine e ciò a prescindere dal fatto che quelli la cui consumazione è avvenuta o iniziata precedentemente alla sua costituzione, e che sono contestati alla Cesa, sarebbero estranei al programma criminoso della consorteria nonostante la sostanziale omogeneità a quelli che invece vi rientrano».
In base a quanto scrive la Cassazione potrebbe aprirsi la strada, quindi, per un alleggerimento della posizione della ex madre superiora che avrebbe cercato l'appoggio dell’Azzollini nella «multiforme campagna di spoliazione» della Congregazione «iniziata da tempo immemore», finendo per «tollerare» i «singoli reati commessi dal Senatore e/o dai suoi complici», cosa della quale suor Marcella dovrebbe comunque rispondere in concorso, senza però essere considerata una componente organica dell’associazione a delinquere.
Infine, dato che suor Marcella è stata estromessa già dal 2013 dalla gestione della Congregazione, commissariata, occorre rivalutare, conclude la Cassazione, se ancora sussista la necessità di tenerla in arresto.