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Cala San Giacomo, un recupero possibile Per un laboratorio di analisi-progettazione partecipata del territorio di Molfetta
15 giugno 2000

1. Introduzione In un nostro intervento, apparso su questo giornale nell’aprile del ‘99, abbiamo voluto abbozzare una precaria, aperta, sfrangiata raccolta di pensieri, idee e interrogativi intorno a cui sollecitare la nostra città a farsi coinvolgere dallo stesso bisogno di osservarsi per progettarsi. Le cose che scrivemmo avevano l’obiettivo di sollecitare, contagiare, facilitare l’avvio di una riflessione allargata da cui partire per organizzare un progetto semilavorato di laboratorio, ovvero di luogo della partecipazione. E’ arrivato il momento di riprendere il filo di quella proposta, ma questa volta per iniziare da quanti credono nella possibilità di essere città, abitanti, collettività che si pensa e si autodetermina. Le cose, i luoghi fisici, ci servono anche, quelli che l’amministrazione di questa città si sta affannando ad allestire, a recuperare, a predisporre; ma gli spazi che ci servono con più urgenza sono quelli del confronto, della partecipazione, del progetto collettivo. Forse “è nelle cose” che non sia un’amministrazione a concederli, ma è tra le cose possibili che sia la città a prenderseli, creandoli. Questa prospettiva intravede la forza propulsiva di un lavoro collettivo con la tensione a conoscere per progettare, ad apprendere dal confronto, a partecipare per riconoscersi nelle scelte. A Molfetta siamo oggi a un punto che è di passaggio: da una fase della pianificazione diffusa alle diverse scale sul territorio comunale a una fase attuativa in cui le scelte si trasformano in opere, in cui si colmano le distanze tra proiezioni e realizzazioni, in cui tutto lo spazio che ogni previsione contiene in termini di interpretazione viene irreversibilmente consumato negli atti. La necessità dell’azione, però, dove non risponda a una valutazione partecipata, ovvero ad una fase che traduca le scelte espresse consapevolmente dalla collettività, diventa l’inevitabilità del processo amministrativo in cui, nella migliore delle ipotesi, il rischio è misurato sulla distanza che separa l’interpretazione degli amministratori dai bisogni e dai sogni della città. 2. Cala San Giacomo A quanti molfettesi piace, specie in primavera, percorrere la stradina che costeggia il tratto di litorale che va dalla Madonna dei Martiri a torre Calderina! Attratti da questo posto, lo inseriscono tra le cose da vedere quando fanno visitare Molfetta a qualche forestiero. E’ come se lì vi fosse l’essenza di questa città. Pensate: esiste l’ipotesi che a cala San Giacomo fosse localizzato il più antico porto di Molfetta, anzi prima ancora che nascesse la città, forse con la funzione di scalo per il più antico insediamento di Ruvo. Oggi in questo posto si incontrano le acque che diluiscono nel mare aperto, la campagna domesticata con serre e antichi palmenti, i solchi del lavoro dei “fischelare” , e ai due estremi del percorso la torre e la chiesa, già propaggine della città. Proprio a ridosso di cala San Giacomo, vi è un breve tratto che da un po’ di tempo è caratterizzato dal degrado: si tratta di un’area che non da pochi anni è stata attrezzata per la sosta, con pavimentazione, muretti in pietra e piantumazioni. Questa opera non ha mai visto momenti di fortuna, ovvero di uso secondo le previsioni del progetto, ma subito è diventata oggetto di atti distruttivi e luogo di pericolo. Non ci sembra superfluo interrogarsi sul perché di tale fallimento: perché un piccolo circoscritto intervento di rifunzionalizzazione a uso collettivo, destinato allo svago, localizzato in un posto piacevole per la vista e per il clima nelle stagioni calde, si sia risolto in vettore di degrado. La bellezza pacata del posto, risultato di un fragile equilibrio tra produzione, contemplazione e memoria, confligge con l’inadeguatezza dell’intervento. 3. Un laboratorio, strumento di autodeterminazione Dove c’è un progetto che interpreta la città, c’è poi la città che interpreta quel progetto diventato opera realizzata. Allora non si tratta di valutare la qualità autoreferenziale del progetto, ma ha senso interrogarsi sui processi e sui modi di “assorbimento” delle trasformazioni dentro il corpo della città. Interrogarsi su questi comportamenti della città può essere un modo per avvicinarsi in maniera indiretta alla produzione dell’idea di sé che la città genera. Un’ipotesi di lavoro è che, guardando attraverso l’immagine al negativo, possiamo riconoscerci attraverso i comportamenti che assumiamo nell’uso della città, osservando e interpretando i processi messi in atto nel giudizio che esercitiamo sulle opere realizzate: un giudizio né tecnico-disciplinare né politico-ideologico né deontologico, ma il giudizio che esercitiamo come abitanti, ovvero in riferimento a valori che sono collettivi e storici anche se per lo più latenti e non esplicitati in maniera consapevole. Un’ipotesi di lavoro nell’ambito del laboratorio di analisi-progettazione partecipata del territorio è di partire dall’osservazione di fenomeni marginali per trarne informazioni circa le modalità di funzionamento delle relazioni tra chi fa e chi usa. La competenza così acquisita può essere trasferita all’osservazione di fatti più complessi per dimensione e per portata (pensiamo a oggetti sui quali in città si è tenuto un confronto contestualmente al processo pianificatorio attivato: il porto, il centro antico, la zona ASI, l’espansione, …); mentre questi, se affrontati direttamente, sono poco disponibili all’analisi critica e a una costruzione realmente dialettica - che non sia solo il risultato aritmetico dei pesi espressi dai poteri messi in campo - poiché su di essi si crea una forte copertura ideologica (di natura politica, tecnica, economica, …). Per scardinare un sistema, una strategia può essere cercarne i punti di minore resistenza, quelli tenuti fuori dal controllo perché considerati marginali: proviamo ad osservare i casi che non sono diventati oggetto di dibattito o di scontro. Entriamo nel sistema dal buco nel calzino di Achille: non interroghiamoci se e quando l’amministratore è onesto o è coerente con le idee che esprime. Facciamo l’ipotesi per cui gli si attribuisca d’ufficio il solo vizio di superbia: possedere la conoscenza di ciò che la città è e vuole essere. Se la città degli abitanti apprende e prende l’abitudine a osservarsi, questa inizia a relazionarsi con l’amministratore e con il mercato come parte agente nel contratto sociale. Ciò che vogliamo abbozzare è un progetto per creare uno strumento di autodeterminazione. L’ipotesi è di spostare l’attenzione sui modi del rapporto tra amministratore e città. Certo, non si tratta di un tavolo di scacchi dove gli attori sono due. Se l’attore amministratore è al suo interno molteplice, a maggior ragione la città sta per un insieme molteplice e conflittuale (gruppi sociali, forze politiche, categorie di professioni e di mestieri, forze economiche, gruppi parentali, …). Ma la partita su questo tavolo ha un terzo attore , invisibile ma presente, quel terzo attore che sembra determinante proprio nei casi marginali, dove cioè i detentori degli spazi di potere trovano scarso interesse a investire energie. Spostare l’attenzione sui modi del rapporto tra decisore e città diventa strumentale per attivare processi di osservazione e critica dentro gruppi di lavoro di cittadini che acquisiscano caratteristiche di autocrescita e di gemmazione. L’ipotesi è di attivare un’osservazione e una critica spinte fuori dai modi di quel conflitto che non riesce più a modificare le cose; un’osservazione e una critica che diventino strumento potente di apprendimento, palestra per l’esercizio delle competenze dell’osservazione, della critica e del progetto con cui partecipare consapevolmente a tracciare il futuro della città. 4. Il terzo attore Si potrebbe partire da una bozza di progetto di lavoro: Il comportamento del terzo attore in alcuni interventi in città. L’organizzazione del lavoro, pensando alle caratteristiche del gruppo di lavoro e alle modalità del lavoro in gruppo, è così ipotizzata: - individuazione dei casi di osservazione (la scelta presuppone un primo livello di valutazioni circa la produttività dei casi scelti, in termini di comprensione dei fenomeni e di trasferibilità del metodo di analisi); - individuazione delle strategie di osservazione da attivare; - smontaggio del caso; - ricostruzione dell’iter formativo del caso. Per cala San Giacomo non crediamo che i decisori si siano interrogati sul “carattere” del luogo, separati come sono dall’oggetto di intervento e chiusi nel ruolo di amministratori o di progettisti. Vogliamo dire che l’amministratore o il progettista sono ruoli a scadenza e occupano posizioni di distacco dall’oggetto, una pretesa visione dall’alto (del controllo politico o tecnico-scientifico), mentre il cittadino-abitante (ovvero nella duplice condizione di partecipante a una comunità e di radicato in un luogo fisico) è dentro la città, la vive nei tempi lunghi della sua storia, è coinvolto con il proprio vissuto integralmente. L’amministratore e il progettista, quando agiscono – nel migliore dei casi – spinti dall’ebbrezza di essere i demiurghi della realtà, si mettono fuori dal tempo e dal luogo, non partecipano coinvolti dentro la comunità e dentro la sua storia, convinti tuttavia di doverne decidere il destino, in qualità di esperti. Gli abitanti sono parte - seppure spesso inconsapevole - del carattere stesso della loro città (basti pensare, con una rozza semplificazione, che la città premoderna, prima della nascita dell’urbanistica come disciplina, era capace di autoprodursi, di crescere e di modificarsi in sintonia con se stessa). L’obiettivo è recuperare una forma di autoproduzione consapevole della città in cui i saperi esperti funzionino da facilitatori del processo. 5. Alcuni casi esemplari Un procedimento, che renda trasferibili gli strumenti dell’analisi messi a punto sui singoli casi e che traduca i casi analizzati in modo tale da sussumere dal numero di questi un livello interpretativo più generale, può essere praticato nel tentativo di ricondurre i CASI ad altrettanti TEMI. Ad esempio il caso della sistemazione di cala San Giacomo può essere ricondotto al tema della città e le funzioni (e i confini); il caso della zona pedonale al viale Pio XI, al tema della città e i ragazzi; quello del recupero e conservazione del Pulo, al tema della città, la memoria e la vita. Come prova di laboratorio, si può successivamente riesaminare il CASO a partire dal TEMA. 6. Per incominciare Si potrebbe cominciare con la creazione di un gruppo di lavoro pilota, che si dia regole e programmi, nell’obiettivo di attivare un processo di partecipazione allargata alla costruzione del laboratorio. Alcuni appunti di lavoro possono essere suggeriti al fine di recuperare o costruire un iniziale bagaglio di conoscenze per il gruppo di lavoro pilota: a. studio dei casi progettati e/o realizzati di museo-laboratorio della città-territorio; b. documentazione, studio e sperimentazione circa la “partecipazione”; c. recupero degli strumenti e costruzione delle competenze per analizzare il territorio; d. documentazione sul materiale informativo e critico prodotto su Molfetta. Angela Colonna Vito Copertino
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