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Bentornata Molfetta!
06 luglio 2011

Gli ultimi fatti giudiziari che hanno coinvolto Molfetta mostrano chiaramente che, ad esserci sottratta, non è stata solo la città come luogo antropologico, come spazio relazionale, spirituale, che si costruisce insieme alla vita di ciascuno, ma anche la città come luogo fisico, come spazio in cui radicare e portare avanti la propria esistenza. La città come spazio condiviso, in quanto retto da leggi e regole in cui si incarna la nostra società, su cui si regge la nostra vita- in –comune e a partire da cui ciascuno può esistere.
Tutto questo orizzonte è stato distrutto. L’orizzonte storico, in cui trova senso la vita del cittadino tessendo relazioni sociali che portano ciascuno a partecipare alla vita di tutti, ad essere responsabili della possibilità di esistenza di una comunità, ha perso terreno di fronte all’appropriazione truffaldina degli spazi, delle stesse opportunità e delle vie dell’accessibilità alla cittadinanza.
A ben guardare, le politiche degli ultimi anni hanno mirato innanzitutto a deterritorializzare la vita di Molfetta, sradicata dal suo orizzonte storico, carico di senso, di possibilità di confronto, di condivisione favorita dal carico di tradizioni, costumi, cultura che la nostra storia porta con sé, per trasferirla su un terreno neutro. Un terreno in cui il cittadino può abbandonare quelle relazioni, che danno senso alla sua vita, che lo mettono in gioco alla pari col mondo, permettendogli di affrontarlo con le categorie che fanno la stoffa della sua identità, mettendosi egli stesso in discussione, per dedicarsi al consumo senza senso. Nella città dei centri commerciali si compra perché nel consumo c’è l’unico spiraglio di senso che possiamo dare ad una vita sradicata dallo spazio sociale in cui si definiscono i valori delle scelte, le opinioni della politica, le necessità dei cambiamenti, delle rivoluzioni, delle conferme, delle decisioni.
La vita astorica, gettata nel mondo razionalizzato del profitto e del consumo, è indifferente non solo alla cultura, ma anche agli spazi, al paesaggio, ignorando persino i vincoli del territorio, il valore delle lame, la bellezza della natura.
Il sindaco Azzollini ha de territorializzato anche l’offerta culturale nella città. Le proposte culturali sono quelle di grossi eventi concertistici costosissimi che assorbono per qualche ora l’interesse della gente disimpegnandola dall’approfondimento della vita nella città, dell’esistenza di una città. Il sindaco Azzollini sembrava essere riuscito mirabilmente nel suo intento. La cultura che si produce in città, infatti, è una cultura superficiale, disimpegnata, che cerca nella “movida” il modo di distrarsi da quella stessa esistenza che dovrebbe essere ravvivata dal senso impresso dalla cultura, quella vera. Quella che penetra nel cuore della città per coglierne i tratti vitali, quasi spirituali, in cui le cose superano la propria immanenza per caricarsi di senso, quando il lavoro di ciascuno si relaziona agli altri per il fatto stesso che è informato del loro stesso spirito, si attua nello stesso orizzonte, si nutre degli stessi valori.
Ed è solo nella cultura, infatti, che si recupera il senso dello stare-insieme autentico, in cui l’altro può essere compreso alla luce della originaria co-apertura al mondo, che è fatta di progetti, di rapporti, di sentimenti.
Fa bene Azzollini ad attaccare i giornali che si battono per il bene comune e che condannano l’ingiustizia: sono gli unici che rifiutano di applicare quella stessa fluidità, superficialità, pianificazione mercantilista all’informazione. La città è stata sottratta alla città, ma qualcosa sta cambiando. La riappropriazione della comunità è cominciata con l’affermazione dell’ importanza del bene comune, e sta proseguendo con la condanna di una politica che si nutre di vacuità, dell’annullamento della sua base sociale. Di una politica che fa vita a sé. E su quello stesso vuoto quella politica sta crollando.

© Riproduzione riservata
Autore: Giacomo Pisani
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“La conoscenza in una società libera”, un libro scritto per Molfetta e non solo. Come dire: casca a fagiolo di questi tempi. Chiedo scusa a “QUINDICI” al direttore de Sanctis e tutto lo staff. Certo non è “farina del mio sacco”. Grazie - “Aumentare le cubature e le superfici delle costruzioni esistenti in deroga a piani, per di più spesso sovradimensionati, significa compromettere tutte le condizioni della vivibilità. Si aggravano le condizioni del traffico, il carico delle reti dell'acqua e delle fogne, si riduce l'efficienza delle scuole, del verde, dei servizi sociali, si peggiorano le condizioni dell'aria e dell'acqua, si riducono gli spazi pubblici, è resa più difficile la convivenza. Si privilegiano, nell'economia, le componenti parassitarie, rappresentate dalla speculazione immobiliare, rispetto a quella della ricerca, dell'innovazione dei sistemi produttivi, dell'utilizzazione delle risorse peculiari della terra. Scatenare l'attività edilizia indiscriminata provoca la distruzione di paesaggi, di beni artistici e culturali, di testimonianze storiche e di bellezza, insomma di tutte le componenti del patrimonio del comune, così debolmente tutelate in molti paesi del pianeta, tanto più in Italia. Ogni qual volta una catastrofe naturale colpisce il fragile territorio italiano, offeso quotidianamente nei suoi ecosistemi fondamentali, cresce la denuncia dell'insensata distruzione del territorio della penisola, ma poi quasi subito l'agenda politica e mediatica dimentica le numerose distruzioni e riprende a propinarci grandi opere, mega-eventi, piani casa, operazioni quasi sempre socialmente inutili ed ecologicamente dannose. E' ancora il vecchio paradigma che resiste, mostrando il suo volto peggiore: aggressivo, perché in difficoltà, e vile, perché punta sulle debolezze del mondo del lavoro e sulla fragilità del territorio. Così nel terzo millennio va prendendo forma la città senza qualità, una gigantesca città “nuova”, in buona parte illegale, che assedia sempre più i centri, raggiungendo dimensioni preponderanti rispetto a quella “ufficiale” e legale. E' il delegare di una “città qualunque”, monotona e miserabile, che racchiude un'umanità impoverita e superflua. Sono le città illegali, che non si sviluppano soltanto nelle metropoli del “terzo mondo”, ma sempre più insistentemente si insediano anche nei “paesi sviluppati”. In Italia, non è più una novità l'autocostruzione, ed è norma diffusa da sempre praticare l'abusivismo. L'abitare illegale non appartiene solo ad un ciclo produttivo ed edilizio ormai trascorso, e neanche a congiunture superate dal governo urbano, ancorchè irrisolte nei nodi di fondo. L'abitare illegale ci parla anche dell'oggi, in quanto si vede la stagione dell'abusivismo assimilata a quella dello sviluppo attuale della città “informale”.
Il tema dominante è sempre lo stesso: perché questa vita così bella, così meritevole di essere vissuta, è resa squallida ed avvilente, dal potere, dai detentori di potere. Perché hanno costruito Miragika e la Mongolfiera. Perché hanno costruito le multisale, mentre l'Odeon sta chiudendo. Victor Hugo deve aver detto o scritto da qualche parte che i tramonti di Molfetta sono fra i più belli del mondo, visti dal molo Pennello con il santuario dei Crociati sullo sfondo. E sul terreno delle trasformazioni urbane che, in larga misura si giocano le sfide del futuro. La città è un esempio di struttura energivora e dissipativa. Le città sono sistemi fisici in contatto con più sorgenti e con più serbatoi di scarico. Flussi di materia ed energia dalle sorgenti permettono la formazione di strutture ordinate, le mantengono nel tempo e infine vengono dissipati in forma di scarti, rifiuti, e altre emissioni verso serbatoi o pozzi esterni. Occorre allora chiudere l'epoca dell'urbanistica senza norme e del liberismo di mercato – da intendersi in realtà come mix di monopolio, favoritismo, privilegio, clientelismo, corruzione e mafia – nelle scelte produttive. Ciò non solo rappresenterebbe la scelta di ridare voce alle istanze di miglior qualità ambientale e dotazione di servizi pubblici da parte dei cittadini, ma soprattutto mirerebbe ad indirizzare le scelte di investimento di lungo periodo fuori dal circuito delle funzioni consumistiche egemonizzate dall'effimera novità di immagine mass-mediatica. Invece, la crisi attuale sta diventando in Italia (a Molfetta, vedi quanto accade) come in molti altri paesi del mondo, l'occasione per “scatenare gli spiriti animali della speculazione edilizia più forsennata e rozza”. E' quello che sta avvenendo. Il progetto di politica urbanistica del capitalismo non vede l'ora di derogare finalmente agli insopportabili piani regolatori ed ai pareri degli uffici pubblici, con la complicità della pessima certificazione di tecnici, ingegneri, architetti, geologi, conniventi. Il sapere e il potere, requisiti nel gabinetto del sovrano oppure nel chiostro dell'accademia. Si cancellano così alcuni secoli di tentativi di regolare il mercato dell'utilizzazione del suolo a fini urbani, quel mercato, che, lasciato alla spontaneità, distrugge le città, rendondone invivibili le condizioni per gli abitanti e le loro attività. Così le città diventano senza qualità, città illegali. La politica non c'entra? Non è una questione tecnica, che possa essere affidata unicamente ad un pool di esperti. E' innanzitutto una QUESTIONE POLITICA, CULTURALE; MORALE. Ancora una volta, occorre in primo luogo che tutti capiscano che non invertire la tendenza comporta danni gravissimi per tutti e per tutto. (Passaggi tratti e condensati da: - La conoscenza in una società libera – M.Centrone, V.Copertino, R. de Gennaro, M. Di Modugno, G. Pisani).


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