La prima volta che lo vidi, intendo che lo vidi davvero, fu ad anno scolastico inoltrato: era appoggiato indolentemente allo stipite della porta dell’aula durante l’intervallo delle lezioni, insolentiva a bassa voce i compagni che uscivano per andare in bagno o per fermarsi nel corridoio e quando ho capito che stava per mettere lo sgambetto ad uno che arrivava, gli ho detto con voce severa: “Tu, smettila e rientra in classe!”. Mi guarda, girando appena la testa di sotto il ciuffo che gli cade sulla fronte, senza muoversi. “Non fartelo ripetere, va in classe!”, con passo strascicato si avvia all’aula. Continuo a guardarlo: camicia di colore incerto, forse perché tante volte lavata, fuori dai pantaloni larghi, con borse alle ginocchia, scarpe in evidente stato di consunzione forse ereditate dai fratelli più grandi, ma emana da lui un senso di pulito, di genuino. Nelle lezioni successive continuo ad osservarlo: i lineamenti delicati, il naso piccolo e ben modellato, gli occhi scuri e liquidi, le labbra grandi e morbide in un perpetuo broncio non hanno niente di effeminato. Avrà tredici o quattordici anni, frequenta la terza media, ma tranne che per i suoi atteggiamenti non ha niente della goffaggine dell’adolescenza. So che ha perduto la madre qualche anno prima. Io dipingo ormai professionalmente da diversi anni e insegno educazione artistica in una scuola media, un ex carcere dove le finestre di alcune aule sporgono sul mercato ittico e spesso, nell’intervallo, gli alunni si affacciano e cominciano i battibecchi con i pescivendoli. Sarebbe uno spasso se non ne risentisse poi la disciplina al rientro in classe. Uno dei ragazzi è figlio del pescatore che ha il banco di vendita proprio sotto l’aula e chiama il padre affettuosamente il Sole perché, visto dall’alto il padre ha il cranio completamente calvo che brilla di luce propria. Un giorno nell’intervallo abbiamo visto il Sole e suo padre, il nonno del ragazzo, correre dietro un anguilla caduta dal bancone: prima l’anguilla, poi il Sole, poi il nonno. La vendita si era fermata e tutti in piazza si godevano la scena. I ragazzi tifavano, chi per il Sole, chi per il nonno, io tifavo per l’anguilla. Il chiasso era indescrivibile, era una scuola così. Io osservavo il ragazzo, volevo posasse per me, e un giorno glielo ho chiesto, eravamo fuori dalla scuola, mi guarda con l’aria di chi ha ricevuto un affronto: “Che vuoi?”, mi chiede in dialetto, bellicosamente. Rido, “Devi solo stare fermo e ti faccio il ritratto”. E’ piuttosto incuriosito, gli spiego dov’è il mio studio e gli do appuntamento per il pomeriggio. Arriva un’ora dopo, si guarda intorno con sufficienza ma è evidente che è colpito dall’ambiente. Il mio vecchio studio è ancora un mio sogno ricorrente, sogno che le piante che avevo sui balconi nessuno le ha più innaffiate e quando io ci torno sembrano tutte secche, ma poi scopro che sotto le foglie secche ci sono tanti germogli e tante foglie nuove. Al mio vecchio studio si accedeva per un portoncino di legno e una sola ripida rampa e pur essendo in una zona centralissima era nel quartiere vecchio con le stradine strette perpendicolari, lunghissime, labirintiche e tutt’ora se ci passo devo leggerne i nomi per orientarmi. Quando Tonino viene a posare lo lascio libero di muoversi, di girare per lo studio e quando finalmente si siede, a braccia conserte, silenzioso e immusonito – non l’ho mai visto ridere – realizzo dei grandi studi in bianco e nero. Poi mi viene l’idea di un quadro di dimensioni piuttosto grandi, un “Bacco adolescente”. In genere chiacchiero con i miei modelli perché non assumano espressioni statiche ma lui risponde a monosillabi e a volte scrolla le spalle infastidito. Un giorno gli do un po’ di soldi come ho fatto con altri ragazzi che hanno posato per me e mi accorgo che andando via li ha lasciati su un mobile, come fa la volta successiva. Inizio il quadro del Bacco, gli chiedo di togliersi la camicia, arrossisce fino alla radice dei capelli e non si muove, poi con gesti lenti e goffi si toglie la maglietta a maniche corte, non ha altro perché è già caldo, non mi guarda. Sembra gli abbia chiesto qualcosa di proibito o indecente. Poggia il gomito sul tavolo lì vicino e il viso sulla mano e mi guarda: “Fermati così!”. E’ perfetto, corro sul balcone, raccolgo alcune foglie da una vite del Canada che è tutta verde e gliele infilo fra i capelli, ha appena un moto di fastidio ma mi asseconda. Dopo due o tre pose il quadro è quasi finito. “Domani finiamo”, gli dico allegramente, non risponde, ma ai suoi silenzi sono ormai abituata. Bussano al portoncino di legno… “Chi altro è? – sbuffa in dialetto – Non aprire” “Ma che ti prende, non posso ricevere i miei amici, li aspettavo”. Vado ad aprire, salgono, Tonino si è rivestito di furia brontola qualcosa che non capisco e guarda con inquietudine uno dei due. Fra me e lui c’è da tempo una forte attrazione anche se non ce lo siamo mai detto. Commentano con entusiasmo il quadro e io vado nell’altra stanza, Tonino mi raggiunge. “Puoi andare, per oggi abbiamo finito”, si avvia alla porta e gli do una piccola somma che farebbe felice qualsiasi ragazzo della sua età, mi guarda con disprezzo e mi getta contro i soldi e senza darmi il tempo di fiatare va via sbattendo la porta. Ci rivediamo a scuola qualche giorno dopo, disturba la lezione come meglio può ma io non raccolgo la provocazione e gli dico di tornare l’indomani. Penso che non verrà e invece arriva, stranamente puntuale, il quadro va bene e gli chiedo di accompagnarmi dal corniciaio. Torna qualche giorno dopo, sa che devo andare a riprendere il quadro, è allegro, e mi porta lui il quadro incorniciato che è piuttosto pesante. Si ferma a parlare con un ragazzo molto più grande di lui e una ragazza, io che ho proseguito mi fermo ad aspettarlo, e i due mi guardano incuriositi, finalmente mi raggiunge. “E’ un amico mio, – mi dice in dialetto anche se non gli ho chiesto niente – gli ho detto che sei la mia fidanzata”. Lo guardo sbalordita. “Ma se posso essere tua madre!” “Non sei mia madre – urla – hai capito, non sei mia madre!” E’ furioso, qualcuno si volta a guardare, lui lascia il quadro per terra contro un muro e si allontana. Si assenta da scuola per un po’ di giorni, e quando comincio a preoccuparmi, lo rivedo, spavaldo e insolente. Cerco di ignorarlo, le lezioni sono ormai al termine, poi riesce, nonostante le lacune, a superare gli esami di terza media. Siamo ormai ad estate inoltrata, un giorno uscendo sul balcone, quello che da sul vicolo più breve per innaffiare le piante, lo vedo poggiato contro il muro di fronte. Lo chiamo d’impulso, guarda su senza rispondermi e gira l’angolo scomparendo al mio sguardo. Il quadro, nonostante mi sia stato richiesto più volte l’ho tenuto nel mio studio per tanti tanti anni e me lo hanno rubato qualche anno fa con altri quadri. Di Tonino non ho saputo più niente dalla fine della scuola per tre o quattro anni, certo non ha continuato gli studi, sarà andato per mare, molti suoi compagni sono andati per mare. Qualcuno non è tornato. Un giorno vado allo studio nel primo pomeriggio, siamo in estate e per strada non c’è nessuno, apro le imposte al mio arrivo e mi sembra di vedere qualcuno giù, non ci faccio caso e lavoro per due o tre ore, poi esco fuori, il sole è ormai meno caldo. È lì, poggiato al muro di fronte al balcone, le braccia conserte, il ciuffo sulla fronte, il viso imbronciato, sempre lui, anche se più alto e più snello: è un giovane dio. “Tonino! – grido con gioia – ma da quanto sei lì…”, non risponde, scrolla le spalle. “Ma che aspetti a salire!”. Accenna a muoversi, corro ad aprire, aspetto inutilmente sulla porta per qualche istante, torno al balcone. Nel vicolo non c’è nessuno. Non l’ho visto più.
Autore: Marisa Carabellese