Un edificio abbandonato, la porta semiaperta e a piano terra diverse finestre senza infissi, come vuote occhiaie. Entriamo. È una scuola. Meglio: era una scuola. Una larga stanza. Un paio di banchi sono stati lasciati disordinatamente e, appoggiata ad un muro scrostato, c’è la lavagna che conserva una scritta in gessetto bianco, ancora ben leggibile: “Ders Bitti” (“La lezione è terminata”). Non posso fare a meno di associare quella lavagna a Jean Luc Godard e al suo “cinema di lavagna”, un cinema rivoluzionario, in cui si metteva in discussione quello che era stato insegnato prima e anche tutto ciò che si era appreso; così, quando si capiva che la lezione era terminata bisognava andar via, lasciare tutto lì com’era, in quel momento, e passare all’azione. Ben pochi compresero appieno quello che, nel 1964 o giù di lì, il regista francese Jean Luc Godard nel suo “Bande à par”t, (comparso da noi con il titolo bislacco di “Separato magnetico”) volle dire. Col tempo, quel film è diventato un cult del cinema d’autore, spesso riproposto su Rai Tre nel programma, ahimè notturno, “Fuori Orario” di Ghezzi. Un film memorabile per almeno un paio di sequenze che hanno fatto la storia del cinema. La prof. di inglese di una sgangherata scuola di lingue parigina scrive alla lavagna, con riferimento a Shakespeare, una frase: “Classique = moderne” e si capirà poi bene il comportamento di tre giovani studenti: Odile (Anna Karina), Frantz (Samy Frey) e Arthur Rimbaud (Claude Brasseur), il più allegro dei tre, destinato – omen nomen – a fare una brutta fine. Il soggetto di “Bande à part”, utilizzato dal Godard, fu tratto dal romanzo di Dolores Hitchens “Fool’s Gold”. Ogni classico dunque è moderno quando sa comunicare il linguaggio dell’universale. Ma, per diventare classici, bisogna saper essere moderni, cioè trasgredire, sovvertire, far saltare il tappo della tradizione. Nel fare questo, si corre certamente anche il rischio di cadere in errori, di commettere sbagli, ma è un azzardo indispensabile, altrimenti è la piattezza della maniera, forse anche comoda, ma pur sempre maniera, a rendere una vita monotona, senza slanci creativi. La scelta di trasgredire, di fare opposizione, sovvertire, scintilla per la dinamicità dei suoi difetti (i due compari, per esempio, si mettono a ballare anche se non lo sanno fare); ma che incanto in quell’imprevisto fare irruzione sullo schermo di una joie de vivre che va a scompaginare la storditaggine di esistenze adagiate nel conformismo, al cinema come nella vita. Come indimenticabile rimarrà, certamente, in mente a chi ha visto il film, un’altra sequenza: la corsa folle dei tre protagonisti nei corridoi del Louvre, fatta per cercare di battere il record di permanenza minima nelle sue sale. È chiaramente una scena che ironicamente prende in giro tutto ciò che una certa cultura “alta” porta, borghesemente e ipocritamente, con sé. È questa l’immagine che ha ispirato il curatore Marco Scotini a dare il titolo alla versione di “Disobedience Archive” presentata alla Biennale di Istanbul? Io credo proprio di sì. La rassegna ? curata da Ute Meta Bauer, Amar Kanwar e David Teh – ha consentito di ottenere un materiale produttivo importante per la nascita di idee e di un modo di vedere contro ogni forma di sottomissione e di contrasto verso quella che è la situazione politica della Turchia. Il progetto articolato in un’esposizione itinerante di centinaia di video, di materiali grafici e di oggetti, accessori o curiosità di antiquariato, ha raccontato le storie e di decenni di disobbedienza sociale: dalla rivolta italiana del 1977, alle proteste globali, prima e dopo Seattle, fino ad arrivare alle insurrezioni nel Medio Oriente e in Turchia. Con un ricordo particolare dei greci ottomani, conosciuti come Rum, che erano un tempo una parte significativa del mosaico culturale di Istanbul, oggi ridotto così tanto, che molte delle sue precedenti istituzioni restano chiuse e vuote. Una di queste, riaperta per l’occasione dopo vent’anni, è proprio una scuola femminile. La scelta di portare Disobedience Archive in questo contesto si traduce in una delle relazioni più potenti della Biennale tra mostra e luogo. Tre sale con lavagne di colore diverso scandiscono il tema di ciascuna stanza: le pedagogie radicali, il femminismo e le ecologie. La disobbedienza è un importante mezzo di comunicazione e resistenza che, messo in un’aula scolastica, la fa diventare un aperto stimolo anche di cambiamenti radicali. Paulo Freire nel suo “Libertà in pedagogia” ricordava che: “Ricominciare ogni volta daccapo, costruire, ricostruire e non guastare, rifiutarsi di burocratizzare la mente, comprendere, è vivere la vita come processo – vivere per diventare”. Disobbedienza e creatività si collegano all’idea che quello che c’è già non è sufficiente né deve accontentare. Questa mancanza può infatti determinare uno stato di tensione, di insoddisfazione da cui, con grande probabilità, nasce la creatività. Sappiamo bene che i principi ispiratori della legge evolutiva, laddove si determinino momenti sfavorevoli, ci insegnano un concetto facilmente verificabile nei comportamenti dei viventi: non è il più bello né il più forte e neanche chi è più dotato di intelligenza a sopravvivere, ma colui che accetta di opporsi alle situazioni anche quelle maggiormente rischiose. Questa opposizione non può che non avvenire prima di tutto se non con se stessi, contro le proprie comode convinzioni (ed è quello che è accaduto e che accade dove incontriamo gli uomini “Giusti” i quali con le loro scelte ci insegnano che prima di obbedire agli altri bisogna essere se stessi). La storia dell’arte è colma di esempi di creatività e disobbedienza: quella di Arturo Toscanini, ad esempio, verso chi nel 1926, alla prima della Turandot – l’opera incompiuta di Giacomo Puccini – alla Scala pretendeva l’esecuzione dell’inno Giovinezza come introduzione all’opera. La risposta di Toscanini fu netta: non solo non accettava la presenza del Duce in sala, ma rilanciava dicendo che certi inni sarebbero risuonati alla Scala solo con un altro direttore artistico. “Sulla parete del mio studio ci sono scritte tre parole: disobbedisci, disapprova, disconosci, – dice il grande artista contemporaneo Anish Kapoor – “io cerco di applicarle ogni giorno, cioè essere un ragazzaccio ribelle”. Nell’arte e con l’arte disobbedirono Artemisia Gentileschi, Elisabeth Vigée Le Brun, Berthe Morisot, Suzanne Valadon, Charlotte Salomon, Frida Kahlo, perché effettivamente intraprendere la carriera della pittrice (o comunque di artista) era, nei loro tempi, un disubbidire per lo meno a quello che tutta la società si aspettava da una donna, ovvero che si occupasse esclusivamente della vita domestica o che comunque rimanesse nell’ombra del marito. E tralascio solo per carenza di spazio i nomi di Virginia Woolf, Emily Bronte, Marguerite Yourcenar, Doris Lessing, la nostra Alda Merini e tante altre… Disobbedendo hanno lottato, proprio con la loro creatività, non solo per se stesse ma per ognuno di noi, contro enormi pregiudizi ed anche contro i limiti e le violenze materiali e morali che la società imponeva loro. © Riproduzione riservata