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Amore per la vita e sete di verità Fiammetta Borsellino al Classico
15 maggio 2019

Il Liceo Classico “L. da Vinci” di Molfetta diventa per una mattinata teatro di una storia d’amore, quello per la vita, di cui Fiammetta Borsellino si fa emblema indiscusso. Non con le parole, non con i gesti, ma semplicemente con la sua presenza, che regala oggi ai giovani proprio come aveva fatto suo padre quando aveva del tempo libero. “Il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare, lo si può fare con qualsiasi professione, purché non manchino l’impegno e l’onestà”. Viene subito in mente la terra amata ma disgraziata, quella Sicilia fatta di guerre intestine non dichiarate dove Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, amici sin dall’infanzia, avevano giocato a pallone con i figli e i nipoti dei mafiosi più in vista. Senza sapere che, di lì a qualche anno, un contatto casuale con i casi di mafia in qualità di magistrati avrebbe cambiato la loro vita, fino a causarne la morte. «Mio padre e Falcone capirono subito che è tutta una questione di scelta. Bisogna decidere se stare dalla parte della vita o da quella della morte. Loro scelsero la vita e vi rimasero per moralità, perché vedevano morire ingiustamente la gente attorno a loro. Avevano paura, come è umano che fosse, ma ne hanno fatto un’arma e non un freno, trasformandola nel coraggio per agire». Un agire che non è sinonimo di scorciatoie illusorie, ma di battaglie portate avanti con la sola arma della cultura. Fiammetta cerca di non commuoversi parlando della storia della sua famiglia, ma i suoi occhi parlano al suo posto e tradiscono quella sete di verità che la accompagna dal lontano 1992. Anzi, ancor prima, perché Paolo Borsellino non è stato ucciso il 9 luglio del 1992, ma ogni volta che è stato lasciato solo nella battaglia di giustizia che portava avanti. Il male non è solo un crimine che si commette con le bombe o con le pistole, il male peggiore è quello di chi sa e tace, nascondendosi dietro il velo della paura. Un velo che invece, nel caso di Fiammetta, lascia scoperta la sete di verità, aumentata dopo il depistaggio con il quale si sono attuati i primi processi sul caso Borsellino. Una procura inadeguata, retta da un procuratore scopertosi in seguito appartenente alla Massoneria, mescolata agli effetti deleteri del tempo che cancella ogni traccia, hanno prodotto l’effetto desiderato dallo Stato: il progressivo allontanamento dalla verità e dalla giustizia. Ma non sarà un depistaggio a fermare la Borsellino e i suoi cari, cui il magistrato ucciso nel ‘92 non ha fallito nel trasmettere la fiducia nello Stato e nelle sue istituzioni. «Mio padre ha sempre servito lo Stato, fino all’ultimo giorno, insegnandomi che va concepito come un amico, non come un nemico. Lo Stato ha anche le sue parti sane che dobbiamo riconoscere e in cui dobbiamo credere, per esempio la procura che sta portando avanti adesso le indagini sul caso, che sta lavorando bene e in silenzio». Incredibilmente profondo il livello di cultura della donna, che le permette, dopo una strage come quella che ha subito, di continuare ad avere fiducia in un organo che le ha strappato via prematuramente un genitore. Ma che non le ha strappato il sorriso con cui parla e con cui dice, irrimediabilmente ferma e al contempo profondamente umana, che non bisogna mai chiudersi nel proprio dolore. Fiammetta Borsellino incarna un po’ la ginestra leopardiana, che trasforma il dolore del deserto nel desiderio di legami indissolubili. Ha imparato dalla determinazione di suo padre, ma anche delle persone che ha incontrato in questi anni e con cui è stato difficile far valere la propria voce. Loro ci hanno messo una vita per credere, lei, invece, crede nella vita.

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