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Xenofobia in molfettese
15 dicembre 2006

Non constano documenti scritti, da cui desumere l'origine e il tempo delle espressioni, che, note almeno alla generazione precedente, ma forse trasmesse da secoli, riporto dall'uso degli anni cinquanta. La loro traccia ci porta a constatare l'intolleranza che permeava la nostra cultura. In quelle condizioni è sorprendente una “lettura” d'uno dei miei libri di scuola elementare (classi terza-quinta). Era un brano di cultura amerindia, un mito della creazione degli uomini, che suggeriva il concetto della relatività, fondamentale nella conoscenza delle culture dei popoli e segno d'intelligenza e sanità mentale. Vi si narrava che Manitù, Dio amerindio, volendo modellare l'uomo e fatte più prove, fu soddisfatto solo dalla quarta. Nelle prime tre aveva errato due volte il tempo di cottura, una volta l'impasto dell'argilla, sicché la figura umana era riuscita poco (razza bianca) o troppo cotta (razza nera) o troppo intrisa d'olio (razza gialla). In mente Dei era stata la razza rossa di buona cottura. In quegli anni alimentava nei ragazzi il comune disprezzo delle altre razze gran parte dei fumetti, molto diffusi a Molfetta fin dall'inizio degli anni cinquanta. In essi erano malevolmente caratterizzati i “musi gialli” e “le facce di carbone” a dispetto del passato coloniale dell'Africa Orientale Italiana. Quale stima facevamo dei popoli delle nostre colonie? Dopo la conquista della Libia (1912) la canzone “Tripoli, bel suol d'amore”, consona con la volontà del governo liberale, ammantava di poesia un adescamento degli uomini e soprattutto dei giovani maschi. Con la prospettiva della facile avventura erotica era eccitata in loro la voglia d'emigrare e colonizzare quella terra: sotto l'usbergo del governo italiano essi potevano sedurre le libiche a man salva, cioè senza pericoli penali per la seduzione dolosa e gli stupri e senza obblighi civili, quali il riconoscimento e l'allevamento di prole. Le sedotte restavano con i loro nati nella patria violentata. Infatti la “razza italiana” restò interamente bianca, mentre nelle colonie si moltiplicava la popolazione nera dai tratti europei. Valga per tutti l'esempio della Somalia italiana, mentre dalle altre due Somalie, la francese e l'inglese, si affluiva nella “madrepatria”. Dopo Hiroshima e Nagasaki, cominciata nel 1950 la prima guerra della pace, condotta dall'imperialismo statunitense, avemmo ulteriore occasione con l'aggravante anticomunista di disprezzare i “musi gialli”. Non nacque a caso la collezione, che io feci, di figurine della “guerra in Corea”, autentici fotogrammi d'operazioni belliche. In ambito religioso la xenofobia fu coltivata dall'antagonismo della Chiesa cattolica. Era tramandata da non so quanto tempo una “rima” riferita alla religione mussulmana: “Allah, Allah, / pìsce frìtte é baccalà”. Ragazzini del dopoguerra, avemmo il bene della “cultura” del braciere, intorno al quale si discorreva, si faceva i compiti di scuola, si giocava (a “vóla-vóle”, “pìzzech'eppìzzeche u saracìne”, “papolìcchie è papolàcchie”) e s'ascoltava racconti tradizionali non solo su monacelli e malombre. Tra le “storie” del braciere era questo pseudo-aneddoto screditante la fede altrui: mussulmani, raccolti in una moschea, chiedevano al profeta di proteggerla dalle bombe, ma una bomba la schiantò e i fedeli, risentiti, dissero un'antifona di biasimo. Era detta in dialetto nostro (“Ménnégghie…”) e non la riporto, perché non sia intesa male (come irriverente). Se l'aneddoto è nostro, la genesi è nel fatto che a Molfetta le guerre furono clementi e non toccarono, per assumerne nozione, molte distruzioni, tra cui quelle di chiese cristiane. Da noi “le tùrchie” furono termine di paragone di disumanità o gravi difformità di relazioni, assommando in un unico deposito di memoria gli sbarchi saraceni medievali e le successive minacce turche: frequenti incursioni armate, tese ad occupare terre altrui, come quelle dei cristiani (crociate) ai danni degl'islamici. In tutti gli assalti la religione non era il movente, sicché a rigore non si può dire “martiri d'Otranto” più di quanto sia lecito definire martiri di San Giovanni d'Acri gl'islamici difensori della roccaforte, attaccata dai cristiani, e martiri ebrei gl'insorti massacrati e dispersi dai romani. Per verità storica bisogna dire che, come negli ultimi anni novanta a Timor Est i mussulmani avversarono nei cristiani non la fede, ma il separatismo politico, così i romani repressero i cristiani non in quanto tali, ma quali oppositori dell'impero e punirono gli ebrei per la loro renitenza all'integrazione culturale e politica. L'odio religioso dei cristiani molfettesi non poteva risparmiare i crocifissori di Cristo. Dicendo d'una famiglia, d'un gruppo, di singole persone “sò come a le gedé” o “sò com'a l'ebbré(ie)”, si voleva intendere che mancasse loro il rispetto reciproco, la solidarietà, la capacità di tranquille relazioni, fondate sul senso d'appartenenza etnica, culturale, familiare. Per i nostri avi perfino nei lineamenti i giudei avevano la perversità, il malanimo, l'aridità sentimentale, la cospirazione, il tradimento: l'espressione “cé 'ffàcce de gedé!” s'alternava con orrore simile con un'altra: “cé 'ffàcce de demónie!” Dal macrocosmo etnico-religioso al macrosomo geografico-razziale: incultura, inciviltà, povertà colpevole furono assommate in un ethnos arabo originario, i beduini. Perciò era detto “beduàine” uno a cui si disconosceva ogni nozione di retto comportamento. Ai beduini subentrò in progresso di tempo (anni cinquanta-sessanta) un popolo del Natal (Sudafrica), gli zulu, il cui nome, pronunciato “zulù” forse per la mediazione linguistica straniera, fu usato per imputare a chicchessia modi primitivi ed ignoranza di regole e d'igiene. Per inciso: cinquant'anni or sono una canzonetta italiana parlava in altro modo d'un'affascinante zulù (“Sugarbush”). Nel microcosmo paesano l'antagonismo abituale tra genti limitrofe e insieme la pretesa superiorità delle genti rivierasche sulle entroterranee presedettero all'uso d'attribuire carenza di cultura civile e sociale per mezzo di denominazioni geografiche, esattamente “terrezzéese” (terlizzese) o, più, “revetàle” (ruvese). Si diceva ad uno giudicato poco fine, “si' nu revetàle!”. Probabilmente a ciò contribuì l'abitudine che nella stagione estiva fin ai primi anni sessanta ruvesi e terlizzesi ebbero di villeggiare a Molfetta con mezzi rudimentali. Essi, venuti su carri agricoli, occupavano tratti della costa, in particolare la “secca dei pali”, usando le stanghe dei “traièine” per tendere come tende per campeggio i teli (“ràcne” nel nostro dialetto), che in agricoltura servivano a raccogliere le olive bacchiate. Settimane di vita libera per le accampate famiglie agricole, che in un denso corteggio di mosche cocevano i cibi in caldaie annerite dal fumo e tipiche anche della cucina molfettese prima dell'avvento d' “u pipigàsse”. Delle frasi, che s'udivano, una è rimasta nel nostro linguaggio ironico: “auàndete a la chiangunàte ancòcche t'afféuche” (afferra i massi “emergenti” per non annegare). In Albania chiamano “kossovari” i loro “revetàle”.
Autore: Antonio Balsamo
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