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Vecchie satire politiche molfettesi
15 aprile 2008

I Piemontesi vi lasceranno solo gli occhi per piangere». Lo ripeteva spesso e volentieri lo zio prete di Gaetano Salvemini a ogni scadenza del bimestre delle tasse a sua cognata Emmanuella Turtur e a suo fratello Ilarione, che nel 1866 era stato volontario in un battaglione garibaldino. Era una frase premonitrice di Francesco II, ironicamente detto Franceschiello, che l'incrollabile borbonico don Mauro Giuseppe Salvemini riprendeva, bofonchiando ogni volta, per lamentarsi dello stillicidio fiscale. Don Morséppë non era l'unico a pensarla a quel modo, visto che se ne querelavano in molti nel Mezzogiorno. Infatti uno dei problemi più gravi che dovettero affrontare nel Regno d'Italia i liberali moderati della Desta storica fu il risanamento delle finanze statali, dissanguate dalle guerre del Risorgimento. Questo si tradusse nel drastico ridimensionamento degli interventi a favore dei ceti più deboli, nell'inasprimento delle tasse dirette e indirette, e nella riduzione ai minimi termini degli stanziamenti per i lavori pubblici. In tal modo anche a Molfetta cominciarono a girare di bocca in bocca delle strofette satiriche contro Vittorio Emanuele II, come la seguente: Vëttórjë (Em)mênuéëlë / téënë lë dìëbëtë e nên zë lë léëvë. / Rëspònnë Caribbàltë: – Appìërsë a cchìrë facimmë l'altë! – (Vittorio Emanuele / ha i debiti e non se li leva [non li paga]. / Risponde Garibaldi: – Appresso a quelli facciamo gli altri! – ). Il neonato regno d'Italia, insomma, non era servito a fugare il cattivo concetto di repubblica che esisteva presso l'uomo di strada. Infatti a Molfetta, come altrove, repùblëchë valeva “confusione, ribellione”, soprattutto in ricordo dei sanguinosi avvenimenti legati alla Repubblica Napoletana del 1799. Comunque, presso il popolino il motivo ricorrente era la fame, come ci ricorda questa ironica sestina: Trè ddì a la dësciùnë, / êngórë më séndë sazziàtë. / Vëttórjë Emmênuéëlë, / ci vu fa rë ccòësë esattë, / nê léëvë dë fèmmënë / ha da chjêmê (Tre giorni a digiuno, / mi sento ancora sazio. / Vittorio Emanuele, / se vuoi far le cose esatte, / una leva militare di donne / devi chiamare). Salito al trono nel 1878 Umberto I, Molfetta ebbe la ventura di una fugace apparizione del re in treno nella mattina del 16 novembre. Il convoglio veniva da Bari ed era diretto a Foggia. Il monarca era accompagnato dalla regina Margherita di Savoia, dal principino e dai ministri Benedetto Cairoli e Francesco De Sanctis. Quattro anni dopo, il 18 giugno 1882 Alfredo Baccarini, ministro del lavori pubblici, e l'on. Giovanni Nicotera, patriota ed ex ministro dell'interno, presenziarono alla posa della prima pietra del molo foraneo del porto di Molfetta. Ai grandi festeggiamenti della memorabile giornata seguì tuttavia la disillusione della povera gente, come testimonia un distico già ricordato da Gerardo de Marco: Ha vënùtë Baccarìnë: / ha nghjênêtë la farìnë (È venuto Baccarini: / è rincarata la farina). Del resto con Umberto I una ventata di autoritarismo paralizzò l'Italia, fino a sfociare, per l'aumento del prezzo del pane, nei sanguinosi moti del 1898, che costarono centinaia di vittime in Romagna, Puglia, Marche, Toscana, Campania, Lombardia e Piemonte. Anche Molfetta ebbe i suoi tumulti e il 1° maggio pianse sei morti e undici feriti. Il bilancio dell'intero ventennio '78-'98 o di parte di esso venne fatto soprattutto dai più anziani, che potevano mettere a confronto, dal punto di vista economico, gli ultimi sovrani borbonici con i primi due re d'Italia. Una satira politica del periodo è stata recuperata da Saverio La Sorsa. Eccone il testo: O régnë dë Frëddënêndë / stêmmë bbùënë tuttë quêndë. / O régnë dë Frêngìsckë / stêmmë tuttë mbrazz'a Ccristë. / Ci sott'a Vëttórjë Mênuéëlë / nêm bëtèmmë chëndà cchjù bbéënë, / ha vënùtë u régnë dë Lobbèrtë / e në mërìmmë alladdèrtë alladdèrtë… (Nel regno di Ferdinando [II] / stavamo bene tutti quanti. / Nel regno di Francesco [II] / stavamo tutti in braccio a Cristo. / Se sotto Vittorio Emanuele [II] / non potevamo contar più bene, / è venuto il regno di Umberto [I] / e ce ne moriamo in piedi in piedi…). Ma non bisogna credere che a lamentarsi fosse solo la gente del popolo (u vasscëpùëpëlë), perché contro i guasti e gli errori della classe al potere levava la Vecchie satire politiche molfettesi I nostri detti memorabili di Marco I. de Santis Centro Studi Molfettesi Giuseppe Garibaldi Vittorio Emanuele II LT U R A 21 15 aprile 2008 sua protesta generica anche l'agiata borghesia col detto Cappìëllë paghë! (Cappello paga! Pantalone paga!). Infatti cappìëllë o cappìëddë era il ricco signore, mentre mìëzzë cappìëddë era il professionista. Con Vittorio Emanuele III e Mussolini, l'evento che maggiormente impressionò i più poveri fu la “battaglia del grano”, iniziata nel 1925 e culminata nel 1933 con una produzione che coprì quasi per intero il fabbisogno nazionale grazie a una coltivazione estesa anche a terreni non adatti al frumento. Questo successo, però, si tradusse in un forte rincaro del grano sul mercato interno, con prezzi di gran lunga superiori a quelli del mercato internazionale. Così i più poveri furono costretti a ridurre i consumi, mentre chi poteva, faceva ricorso al contrabbando. Questo fu incrementato soprattutto tra il 1941 e il 1942, quando corse il detto: O tìëmbë dë Musulìnë / ogne ccàsë nu mëlìnë (Al tempo di Mussolini / ogni casa un mulino). Poiché il pane scarseggiava ed era razionato, il grano veniva acquistato di nascosto nel Foggiano da uomini, donne e giovani. Superati fortunosamente i controlli, il grano veniva macinato segretamente nelle abitazioni col macinino da caffè per ricavare un po' di farina per la panificazione. Nel secondo dopoguerra, dopo la ricostruzione e il boom economico, contro il parassitismo della classe dominante tornò in auge presso il popolino l'espressione Cuchêgnë dë Prëcënéddë (Cuccagna di Pulcinella) e l'esclamazione È nê cuchêgnë! (È una cuccagna! È una mangerìa!). Un altro detto del passato l'ho risentito qualche giorno fa da un vecchio che si lamentava a modo suo della indegnità, del camaleontismo, della litigiosità, dell'avidità e dell'inconcludenza dei politici locali e nazionali di destra, di centro e di sinistra. Il motto è il seguente: O vè da Trittë o vè da Quaràtë, / da tòttë rë vvênnë ha da léssë arrëbbàtë! (O vai da Toritto o vai da Corato, / da tutte le parte sarai derubato!). Generalizzazioni e qualunquismo a parte, c'è poco da stare allegri.
Autore: Marco I. de Santis
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