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Una poesia dialettale del musicista Vincenzo Valentemaschile
15 gennaio 2011

In una voce riguardante la Letteratura dialettale pugliese, apparsa nel 1935 nell’«Enciclopedia Italiana» dell’Istituto Treccani, Saverio La Sorsa ricorda tra i poeti molfettesi in vernacolo dell’Ottocento, accanto a Nicola Moscato e Pantaleo Nisio, il musicista Vincenzo Valente. Questo signifi - ca che nella sua lunga attività di ricerca, il demologo ebbe modo di leggere qualche sua poesia o comunque registrò l’eco della sua notorietà letteraria almeno nella città di Molfetta, anche se la data di nascita e di morte da lui riportata (1846-1906) va riferita a un omonimo o ad altra persona. Infatti il musicista molfettese Vincenzo Valente nacque nel 1830 e morì nel 1908. Nel 1936 Sergio Azzollini, nel poema Il Borgo, dedicò un’ottava a un breve ritratto del musicista don Vincenzo soprannominato Zònzë, sintetizzando in chiusura i versanti principali della sua arte: «Compose marce funebri famose / e scoppiettanti liriche giocose». Le poesie giocose sono, ovviamente, quelle in dialetto, ma Valente preparò anche una raccolta di 32 componimenti “seri” in lingua italiana, destinandola nel 1896 alla Tipografi a De Bari, che non risulta sia stata poi pubblicata. Una lirica di questa silloge in lingua, intitolata La notte del Natale al Presepe e musicata dallo stesso autore, è stata riportata in luce da Giovanni Antonio del Vescovo nell’articolo Una ninna-nanna di Vincenzo Valente del 1896 apparso sul n. 12 di «Quindici» del 1998. Le poesie in vernacolo di Vincenzo Valente senior sono andate disperse. Numerose ricerche, da me eff ettuate in più direzioni per tentare di recuperarne qualche componimento, così come avevo fatto per Pantaleo Nisio, risultarono infruttuose. Allora pregai il nipote, il mio diletto Maestro e amico Vincenzo Valente junior, dialettologo e fi lologo di levatura nazionale, di frugare tra le carte di famiglia per trarre qualcosa dall’oblio. Dopo molte garbate insistenze, commosso dalla mia «disinteressata e diuturna attenzione ai personaggi e agli eventi di Molfetta» – sono parole sue – il prof. Valente vinse la sua ritrosia, cercò tra le sue cose e in uno dei nostri successivi incontri mi consegnò due poesie dialettali del nonno paterno. Per ora ne pubblico una, che coinvolge da una parte esplicitamente e dall’altra implicitamente due coniugi molto cari a Gaetano Salvemini: Quirina Ester De Castro (1871-1954) e Francesco Saverio Picca (1863- 1934). Quirina aveva sposato in prime nozze il fratello dell’avvocato donCiccillo, il medico Vito Nicola Picca, morto precocemente nel 1898 a 39 anni. Dalla loro unione era nato nel 1892 Domenico, detto Mincuccio, che sarà farmacista a Bari e premorirà alla madre, come cortesemente mi ha fatto sapere l’amico prof. Pasquale Minervini. Fu la stessa mamma di Ciccillo e del defunto Nicola Picca, Anna Maria Rubini di Canneto, a consigliare al fi glio di sposare la ventisettenne cognata, rimasta vedova con un orfano a carico. Don Ciccillo acconsentì e si prese paternamente cura di Mincuccio, che diventerà caro anche a Gaetano Salvemini. Nel giro della parentela dei Picca c’era pure il musicista Vincenzo Valente, perché sua fi glia Maria Giuseppa aveva sposato in seconde nozze il fratello maggiore di don Ciccillo, l’avv. Giuseppe Picca, che dalla prima moglie Rita Valente aveva avuto Domenico, il futuro capitano di fanteria che morirà eroicamente sul Carso nel 1916, meritando la medaglia d’oro alla memoria. Donna Quirina era una bella signora dalla taglia “forte”, giunonica e prosperosa, aspetto che non era sfuggito al mite e sornione maestro di musica, che in un giorno di maggio del 1904, non si sa se per vendicarsi di un piccolo sgarbo subìto o per ubbidire semplicemente alla sua musa ridanciana e beff arda, forse pensando che la sua anzianità ascendente a quasi 74 anni potesse garantirgli una qualche impunità, giocò un tiro mancino alla trentatreenne moglie di don Ciccillo. Scrisse una salace poesia in dialetto e la fece imparare a memoria a un suo innocente nipotino di circa 6-7 anni, Vincenzino, fi glio di Giuseppe Picca e di Maria Giuseppa Valente. La poesia s’intitola Per l’onomastico di zia Quirina e fu recitata dal bambino alla destinataria davanti ai parenti riuniti in casa. Eccone il testo e la traduzione:Óëscë è u Sêndë dë ziênëmë la gróssë, ca è tòtta càrnë e nên déën’óssë, ca dë carnë në téënë da vènnë chë ttêndë dë càulë e ttêndë dë mènnë. Signurë mêjë, nên v’agghjë cé ddàiscë: quênnë la vèëtë, më véënë u nghëlàiscë, è nu nghëlàiscë ca nên zaccë spiegà, pó v’u spiéghë quênnë avastë l’età. Óëscë la dàjë ca è u Sêndë tàuuë, ognàunë të fascë l’augùrjë sàuuë. Sìëndë l’augùrjë ca të fascë nëpòttë: “Chêmbë cìënd’ênnë e va të fa fòttë!”. Oggi è l’onomastico di mia zia la grossa, che è tutta carne e non ha ossa, che di carne ne ha da vendere con tanto di culo e tanto di tette. Signori miei, non so che dirvi: quando la vedo, mi viene la voglia, è una voglia che non so spiegare, poi ve lo spiego quando basta l’età. Oggi ch’è il giorno dell’onomastico tuo, ognuno ti fa l’augurio suo. Senti l’augurio che ti fa tuo nipote: “Campa cent’anni e va’ a farti fottere!”. Ciascuno può immaginare come andò a fi nire. Ovviamente i grossolani apprezzamenti in rima causarono il vivo risentimento di donna Quirina e in famiglia si scatenò il putiferio.

Autore: Marco I. de Santis
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