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Un uomo, una poltrona la sentenza della Consulta: Azzollini deve lasciare la carica di sindaco o di senatore
15 novembre 2011

La Corte Costituzionale con la sentenza n.277 del 21 ottobre ha finalmente posto fine a uno dei tanti paradossi della politica italiana, stabilendo l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di un Comune con più di 20mila abitanti. A sollevare questa questione dinanzi la Consulta è stato il Tribunale civile di Catania su ricorso di Salvatore Battaglia nei confronti di Raffaele Stancanelli, eletto sindaco di Catania due mesi dopo la nomina a parlamentare del Pdl. La Corte ha evidenziato che già nell’ultima manovra finanziaria di agosto (D.L. 138/2011 conv. in L. 148/2011) era stata introdotta una norma che stabiliva l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e sindaco di un Comune con più di 5mila abitanti o di presidente di Provincia. Per non incorrere subito in tagli drastici alla politica, di cui si parla spesso ma non s’interviene mai, l’art. 13 recita così: «tale incompatibilità si applica a decorrere dalla prima legislatura successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto». A fare compagnia a Stancanelli, ci sono 6 deputati e 5 senatori che ricoprono contemporaneamente la carica di sindaco di un Comune con oltre 20mila abitanti, senza contare che ci sarebbero circa un centinaio di parlamentari che occupano le più svariate poltrone negli enti locali, con il duo Pdl-Lega a fare da apripista. La materia su cui è intervenuta la Consulta è particolarmente scivolosa. La legge stabilisce che i sindaci di Comuni con più di 20mila abitanti non possono essere eletti alla carica di parlamentare. Già il Testo Unico per l’elezione della Camera sancisce che non sono eleggibili i sindaci dei Comuni con popolazione superiore ai 20mila abitanti (art.7, I comma, lettera c, del Dpr n.36/57). L’art.5 del D.Lgs. n.533/91 estende l’ineleggibilità anche ai senatori con un esplicito richiamo all’articolo prima citato del Dpr del 1957. È infine l’art.62 del D.Lgs. n.267/00 (Testo unico degli enti locali) ad introdurre anche una causa di “non candidabilità” nel disporre che «l’accettazione della candidatura a deputato o senatore comporta, in ogni caso, per i sindaci dei Comuni con popolazione superiore ai 20 mila abitanti e per i presidenti delle Province la decadenza dalle cariche elettive ricoperte». Le disposizioni legislative su questo punto, quindi, sono già chiare: chi ricopre la carica di sindaco in un grande Comune non può diventare parlamentare. Ma la legge non chiarisce i termini di una situazione inversa: se un parlamentare in carica (deputato o senatore) è eletto sindaco di un grande Comune (con più di 20mila abitanti). Dal 2002 in poi, nel silenzio della legge, tale incompatibilità non esisteva, giustificando varie situazioni di parlamentari che ricoprivano il doppio incarico. Prima del 2002, invece, era prevalente l’interpretazione contraria. La Suprema Corte ha rilevato il contrasto delle disposizioni statali e regionali censurate con gli artt. 3 e 51 della Costituzione, espressivi della fondamentale esigenza che non degrada la potestà legislativa regionale esclusiva a competenza concorrente, ma la limita e la impegna al rispetto del principio costituzionale che esige l’uniforme garanzia per tutti i cittadini, in ogni parte del territorio nazionale, del diritto fondamentale di elettorato attivo e passivo. Infatti, la mancata previsione del divieto di cumulo può comportare una disparità di trattamento tra la posizione di coloro che sono già parlamentari ed intendono candidarsi alla carica locale, su cui non grava alcun obbligo, e coloro che, invece, sono titolari di un ufficio pubblico locale e intendono partecipare alla competizione elettorale per uno dei rami del Parlamento, sui quali grava l’obbligo di dimettersi preventivamente. Questo con lesione anche del principio di ragionevolezza, in quanto un soggetto non può assumere durante il proprio mandato uffici o cariche che gli avrebbero precluso l’eleggibilità rispetto a quello ricoperto per primo. Si tratta di verificare la coerenza di un sistema in cui alla non sindacabile scelta operata dal legislatore di escludere l’eleggibilità alla Camera o al Senato di chi contemporaneamente rivesta la carica di sindaco di grande Comune, non si accompagni la previsione di una causa di incompatibilità per il caso in cui la stessa carica sopravvenga rispetto alla elezione a membro del Parlamento nazionale. È il caso del sindaco senatore presidente Antonio Azzollini, che è stato eletto sindaco dopo l’elezione a senatore e che, proditoriamente, per non incorrere nel caso di ineleggibilità a senatore, si dimetteva dalla carica di sindaco gli ultimi giorni utili per potersi ricandidare al Senato, per poi riprenderla all’avvenuta elezione a senatore. Tra l’altro, la Suprema Corte ha evidenziato come il cumulo tra gli uffici elettivi sia ritenuto suscettibile di compromettere il libero ed efficiente espletamento della carica, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 51 della Costituzione (sentenza n.201/03). Poiché in ultima analisi le cause di ineleggibilità e di incompatibilità si pongono quali strumenti di protezione non soltanto del mandato elettivo, ma anche del pubblico ufficio ritenuto causa di impedimento del corretto esercizio della funzione rappresentativa, il potere discrezionale del legislatore di introdurre (o mantenere) dei temperamenti alla esclusione di cumulo tra le due cariche «trova un limite nella necessità di assicurare il rispetto del principio di divieto del cumulo delle funzioni, con la conseguente incostituzionalità di previsioni che ne rappresentino una sostanziale elusione» (sentenza n.143/10). Allo stato attuale, quindi, nel momento in cui scriviamo, Azzollini occupa abusivamente, sine lege, la carica di sindaco (o di senatore). In sostanza, la sua permanenza nei due incarichi è illegale e suscettibile di essere sanzionata.

Autore: Nicola Squeo
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