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Un gran fascio di mimose
15 luglio 2014

Ancora è rifiorita la mimosa. Scorrono le stagioni, sempre più in fretta, ma i piccoli globi d’oro ricompaiono puntuali all’inizio di ogni nuova primavera. Sempre uguali e sempre nuovi. Il loro lieve pulviscolo dorato si è sprigionato da un giornale, ritrovato dopo anni, e ho pensato che il racconto che vi avevo pubblicato, quasi trent’anni fa, sia pure in forma ridotta, lo avrei riproposto ai lettori di Quindici, soprattutto ai più giovani, sono tanti, che forse quando l’ho pubblicato non erano ancora nati. Spero che qualcuno di loro lo legga, perché possano scoprire che l’amicizia, quando è lieve e non invadente come il profumo dei fiori di mimosa, ma ha radici salde come il suo albero, non muore mai. Mi viene incontro con le braccia cariche di mimose. Varco il cancello e ancora una volta il mio sguardo è attratto dal grande, imponente, sonoro eucalipto, l’albero che canta, che è stato sempre il nostro punto di riferimento per “villa Durazzini” o “Villa Susanna”. Il Dottore, o come lo chiamiamo più familiarmente don Pierino, è quasi nascosto dal suo carico. La fredda mattina di fine inverno vibra di luce dorata, e in breve ciascuno di noi ragazzi ha il suo fascio di mimose, e mimose sono all’interno della macchina, e poi ne copriamo il portabagagli e la macchina parte, con il suo carico di ragazzi ridenti e rami fioriti e qualcuno lungo la strada ci fa segno che ne vuole e don Pierino che è alla guida rallenta e dai finestrini distribuiamo rametti di sole. La sera, a casa mia tutti i vasi, i portafiori, le brocche sono pieni di rami profumati e i nostri amici ne hanno un rametto all’occhiello e le ragazze ne hanno nei capelli. I genitori, pochi oltre i miei, chiacchierano fra loro o ballano con noi. Io ballo con Gabriele, a cui ho insegnato a ballare e che poi ha superato di gran lunga la maestra. “Vieni a ballare con me”, dice il Dottore, ha sostituito la tenuta da giardiniere con un elegantissimo abito blu e il suo sguardo è ironico e un sorriso impercettibile è mal simulato dai baffetti sottili. Si inchina compito, ringraziandomi dopo il ballo, e questo mi fa sentire molto adulta, e va ad invitare sua figlia Susanna. Susanna è bionda e piccolina, facile ai rossori ma con vibrazioni nello sguardo e nella voce di una volitività ferma ancora in embrione. La moglie del Dottore, che nel volgere degli anni diventerà per me e mia sorella la “zia Ida”, sta conversando con mia madre. E’ una “signora” dalla punta dei capelli, pettinati semplicemente, all’abito di sobria eleganza, alla punta dei piedi. La guardo e ricordo la prima volta che li ho incontrati: avevo la testa annebbiata dalla mia prima favolosa cotta ed era la seconda volta che partecipavo ad un ballo dove forse avrei rivisto “lui”. Non ricordo più il nome del mio principe delle favole di una sera, ma ricordo con chiarezza la presentazione dei miei genitori che mi fecero conoscere una coppia di loro amici. Mi parvero un po’ freddi, ma mi resi poi conto che era discrezione, riserbo, e che la loro distinzione non era a scapito della cordialità. Quanti anni sono passati da quella sera?... venti, trenta, di una amicizia senza ombre, senza screzi, senza ambiguità, che le pause a volte di mesi o di anni, soprattutto di noi figli, data la lunga permanenza all’estero di Gabriele, ingegnere elettronico, e la brillante laurea in fisica e il matrimonio di Susanna, che l’ha portata a vivere in un’altra città, non hanno scalfito. C’erano le telefonate fra le mamme, sempre più amiche, il ricordarsi reciprocamente per i compleanni, gli onomastici, il comunicarsi tutte le novità familiari, il ritrovarsi negli eventi gioiosi e nei grandi dolori. Cari amici sempre nel mio cuore, perdonatemi se non riesco a pensare oltre a voi, stasera ho pensieri solo per Donna Ida e per il Dottore, o meglio per zia Ida e don Pierino. E pensare al Dottore è pensare alla villetta in campagna, meta di tante nostre passeggiate, di allegre, felici riunioni… L’eucalipto canta presso il cancello ad ogni lieve passaggio di vento e gli olivi intorno si coprono di stelle, e il Dottore mi offe un mazzo di gelsomini, una piccola cascata bianca nella luce lunare: “Vedi, li ho raccolti per te”. I lillà invece sono sempre per mia sorella, sono i suoi fiori. La zia Ida non ha mai dimenticato, finché è stato possibile, di inviarglieli per il suo compleanno, in aprile. Le stagioni si alternano, ma per ogni stagione il Dottore, paziente giardiniere, ha sempre un mazzo di fiori da offrirci quando ci vediamo, “produzione propria!”, dice ridendo soddisfatto, come il liquore di limone di zia Ida. Mimose, lillà, mughetti, peonie, giacinti, che il dottore coltiva paziente e silenzioso, e man mano che passano gli anni si avvolge sempre più in un silenzio che lo difende e lo protegge e zia Ida è una vestale amorosa che gli evita quanto può disturbarlo o fargli male… E il silenzio è fatto di nuvole che passano sul cielo della sua “campagna”, e in campagna ordina i vialetti e cosparge di ghiaia piccoli sentieri fra l’erba e si costruisce una piccola nicchia, una grotta fra il verde con una Madonnina a cui dedica le primizie di narcisi e anemoni e tulipani e rose, tante rose, le famose rose del Dottore. L’ultima volta che sono andata a villa Susanna me ne porge una profumatissima di un rosso profondo, scuro, che ha vertigini di tenebra nel suo interno e io gli chiedo se è la “Papà Meilland”. Mi guarda, sorpreso e ammirato per questa mia imprevedibile cultura in materia, frutto di contemplazioni approfondite dei cataloghi di Stassen e Sgaravatti e di timidi tentativi di coltivatrice sui balconi del mio studio. Parliamo di Meilland e Gaujard, di Delbard, di Tantau e Kordes. E gli dico della mia “Rose Gaujard”, della “Carla” e della “Blue magic” e ci abbandoniamo felici a divagazioni sul tema, e discutiamo se fra le rose bianche è preferibile l’assoluto candore della “Virgo” o le nuances tenuissime della “Giovanni XIII”. E’ felice, parla animato e il tempo trascorre veloce ed è trascorsa un’ora o come Ripp l’addormentato della leggenda, mi accorgo che sono trascorsi anni… quanti?... chi lo sa. Ma nella dimensione atemporale, dove è ora don Pierino, i numeri non hanno senso. Il Dottore è andato via in silenzio, con la discrezione che ha caratterizzato tutta la sua vita. E per poco ha lasciato di sé un’ombra mortale per rendere meno improvviso il distacco dalla compagna di sempre, dai figli, dagli amici. Il vero don Pierino è andato subito là, nel posto che gli hanno assegnato: un giardino identico alla sua “ campagna”, il cancello bianco, i vialetti ordinati, la grotta con la Madonnina, le mimose, i mughetti, i lillà, le rose di Meilland e i cieli tersi e un gran silenzio e una profonda pace. Quando lo rivedrò mi verrà incontro con il suo sorriso un po’ ironico e gentile e mi offrirà un mazzo a cascata di bianchi fiori profumati coltivati da lui… saranno forse gelsomini… O sarà una cascata di stelle? a Susanna e Gabriele

Autore: Marisa Carabellese
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