Umberto Mazzola lotta contro l’ingiustizia
Umberto Mazzola non demordeva. Con il sole e con la pioggia, col vento e con la neve era lì, cartello nelle mani a testimoniare l’ingiustizia subita. Ai crocicchi più trafficati della città, sui sovrappassi, nei pressi delle rotonde più bazzicate dagli automobilisti, a sorvegliare dentro di sé quell’ultimo angolo di orgoglio e rabbia che gli era rimasto. Molti lo scansavano, altri lo deridevano, quasi tutti lo ignoravano. Cosa volete! Nel tran tran quotidiano quel baluardo sessantacinquenne mai piegato alla rassegnazione che certo non passava inosservato, doveva sembrare ai più l’ennesimo sconfitto da tollerare. Umberto Mazzola si era visto squarciare il pavimento di casa all’improvviso. D’un tratto mentre cenava con la sua famiglia, moglie e quattro figli, un cane ed un gattino, aveva visto sotto i suoi piedi il letto dell’inquilina del terzo piano. Una voragine, una vertigine. In una sola parola la fine dei sogni della sua famiglia. Sapete, i sogni di un operaio in cassa integrazione sono molto miti e mai infastidiscono la gente. Due mura ed un tetto, pane e cipolla, un lavoro per i propri figli anche modesto. Figli che alle prime montate di tramontana, metaforicamente parlando, se ne sono andati. Due in Germania e due in Svizzera. La fame acuisce i sensi e prepara in fretta le valigie. I palazzinari degli anni Novanta hanno fatto peggio di quelli degli anni Sessanta. Palazzi costruiti con sabbia e speculazione anziché con cuore e cemento. Umberto Mazzola è rimasto lì alla rotonda di Via Fontana. Quest’inverno appena cominciato è davvero serio. Piove da giorni e adesso nevica. Figurarsi la neve a Molfetta! Evocata dai bambini che trasformano i disguidi in vantaggi felici. Bimbi monelli attorniano Umberto quasi morto per il freddo ed impalato col suo tabarro nero, guanti morsicati dal cane e cappello abbassato fino agli occhi; gli lanciano palline di neve. Umberto non sente rancore verso quelle dolci creature. Anzi, vorrebbe giocare con loro. Gli piacerebbe per un attimo lasciare frustrazione e dolore ed inseguirli, correre in quel pezzetto di prato ora imbiancato e fare il pazzo, far piroette e urlare, ridere, ridere… ridere! «Da quanto tempo non rido», si chiede Umberto! Il suo cartello: “VERITA’ SUI PALAZZI FONTANA!” è ormai illeggibile. La neve l’ha oscurato. È la vigilia di Natale. Umberto è solo. Sua moglie non gli ha perdonato questa fissa che gli martella il cervello. Lei si è arresa ed è andata a vivere da una delle sue sorelle. Umberto no. Preferisce panchine e stazione. In fondo un cielo stellato può dire molte più cose di un tetto in prestito. È forse questo il momento più lirico della sua vita. Lottare senza urlare ma dire molto di più che ad un comizio. Con la neve che non cessa, lui fragile grissino piantato nella rotonda. S’accorgerà il Sindaco della città, un Assessore pietoso, un Prete Misericordioso della sua volontà di morire così, assiderato dall’indifferenza e dal gelo di Dicembre? Quel che non fa l’uomo lo fa il Cielo. I monelli sono tornati a casa. La loro mensa è ricca. Frittelline, frutti d’ogni sorta, pandori e panettoni sono pronti ad essere sciupati. È arrivato il buio. Umberto è quasi andato. Non ha nemmeno più la forza di muovere una gamba. Intirizzito come un passerotto in fin di vita. La rotonda nella quale si è piantato dista poco dai palazzi della sua sventura e da quel magico Pulo che da bimbo frequentava nelle sue scorribande pomeridiane. Eccoti dunque una fenditura nel cielo. Uno squarcio celeste e radioso. «Com’è possibile! In un giorno di buriana!», pensa Umberto. Sono morto dunque. Eppure fa tanto freddo, le sue ossa anchilosate sentono il rigido tenore della tramontana che frusta la carne, piega il midollo. Dal cielo filtrano spade di sole che lo ristorano. Com’è bello il tepore del sole! Eccoti all’orizzonte pastori con greggi belanti. Pecorelle dolcissime che arrivano zampettando querule a leccare la neve dai pantaloni di Umberto. Pastorelli che lo avvolgono nei loro pesanti mantelli; e suoni di zufoli e flauti dolcissimi, una ridda festante di suoni e di carezze che ristorano il manifestante congelato. Eccoti le lavandaie notturne a far festa attorno a lui, a cantare Nonne’ e nonne, e il cantore della Santa Allegrezza, eccoti il bue e l’asinello condotti senza pungolo alcuno da Ministri del Cielo; ed una stella cometa che quasi sfiora il cappello di Umberto e va a cadere ma senza tonfo sulla nitriera borbonica. Lì c’è un tetto pure! Umberto, abbraccia Maddalena, la lavandaia di Via Preti. Sua amica d’infanzia. Ora sì che la riconosce. E inizia a camminare. C’è una stella da raggiungere. Si va per via Ruvo. Dietro di loro: mugnai, panettieri, contadini, musici e cantori, attori e saltimbanchi. Gente strana, gente povera. Eccovi i pescatori, i marittimi, un codazzo di bambini sorridenti. A metà, tra cielo e terra, un numero immenso di angeli musici. Amore è Musica. Gente di ogni colore, professante tutte le religioni. Già, perché nell’universo che ci governa c’è un solo Dio e tanti Profeti. Umberto ha il cuore caldissimo. Ride. Ride finalmente! Ha trovato la sua vera casa. Un giaciglio accanto a Lui. Gesù Bambino. Ci sono anche San Giuseppe e la Vergine Maria. Sono proprio come sempre li ha immaginati. Padre e Madre. È un Natale Vero. Il Natale degli Ultimi. Degli sconfitti. Dei diseredati. Degli emarginati. È il Natale più ricco del mondo. (da “Spike”)