Era appena partita da Civitavecchia per una crociera nel Mediterraneo Occidentale. Ore 21,30 circa: l’urto contro uno sperone di roccia a 300m dall’Isola del Giglio. La manovra, poi il testacoda. Subito dopo la nave, arenata vicino il porto, si è inclinata. 4231 le persone sulla nave da crociera Costa Concordia, 1023 dell’equipaggio. SOS lanciato dopo un’ora. 17 i morti, una ventina i dispersi, un centinaio i feriti. Secondo i verbali dell’interrogatorio, la nave sarebbe partita sapendo già di dover “inchinare” al Giglio. Le indagini sono ancora in corso. Telegiornali e quotidiani continuano ad aggiornare la situazione. La mattina del 14 febbraio per primo Quindici online ha annunciato a Molfetta la tragedia, segnalando la presenza a bordo di un molfettese, residente a Terlizzi, con la moglie e il figlio di 17 anni. Dopo qualche giorno si è saputo che anche un componente dell’equipaggio era un molfettese. Quindici ha intervistato Giovanni Bufi e la moglie Silvia Summo, a due giorni dalla tragedia. Emotivamente provati, soprattutto il figlio diciassettenne, hanno raccontato quegli attimi drammatici passo dopo passo. Cosa è successo quella sera? Quali sono stati gli attimi febbrili e più drammatici che avete dovuto affrontare? [Giovanni] «Eravamo al secondo turno della cena, quello della 21. Avevamo appena lasciato le valige in cabina, perché partiti da qualche ora da Civitavecchia. Alle 21,30 il disastro. Erano appena arrivati gli antipasti. Abbiamo sentito un botto, come se il fondo della nave avesse strisciato contro qualcosa, poi una virata. Piatti, posate e bicchieri sono sgusciati per terra. Immediatamente ho preso mia moglie e mio figlio per le mani e siamo corsi verso la cabina per prendere il giubbotto di salvataggio, perché avevo già capito che quella sera stessa la nave sarebbe colata a picco. Anzi, siamo stati fortunati perché, quando siamo entrati in cabina, la corrente non era ancora saltata. Di contro, non saremmo entrati o, peggio, saremmo rimasti chiusi dentro». Giovanni, lei ha subito intuito la gravita dell’accaduto, rispetto a quanti hanno minimizzato l’accaduto. «Appena ho sentito il botto, ho subito capito perché, essendo stato un cuoco marittimo per 13 anni su petroliere e navi container, ho una certa esperienza (oggi lavora come cuoco all’ospedale di Molfetta, ndr). Mentre correvamo verso la cabina, mia moglie continuava a chiedermi cosa stesse succedendo, perché d’istinto mi fossi alzato da tavola e io continuavo a ripeterle che la nave sarebbe colata a picco a momenti. Appena usciti con indosso i giubbotti, le altre persone ci guardavano stupite e credo che qualcuno mi abbia preso anche per pazzo». Il fattore tempo è stato importante. [Silvia] «Certo, dopo aver indossato i giubbotti di salvataggio, ci siamo precipitati alle scialuppe. Molti passeggeri andavano in giro, senza sapere cosa fare. Arrivati alle scialuppe siamo stati bloccati. Siamo stati i primi, ma non è servito e niente. Gli altri passeggeri sono arrivati solo dopo, mentre il personale continuava a dirci che non era successo niente. Persino dieci minuti prima di salire sulle scialuppe ci dicevano di andare in cabina a riposare». È giusto evitare il panico, ma invitare i passeggeri a ritornare in cabina mi sembra il consiglio peggiore per quei momenti, senza nemmeno conoscere la causa del danno e la sua gravità. [Giovanni] «Senza dubbio. Nei pressi della lancia, che avremmo dovuto e voluto prendere, mi ero anche fermato a parlare con un vicecommissario di bordo, uno dei pochi italiani dell’equipaggio, che continuava a ripetermi fosse stato un semplice guasto al generatore ». Cosa gli ha detto? [Giovanni] «Che, avendo lavorato sulle navi, avevo capito che non si fosse trattato di un semplice guasto al generatore, perché in quel caso la nave avrebbe continuato a procedere diritta o si sarebbe fermata. Avevo ipotizzato delle falle, ma quel commissario, pur confermando la mia versione, mi diceva di star calmo, di non diffondere il panico». Credo che questa sia una dichiarazione importante, perché vuol dire che qualcuno dell’equipaggio aveva capito o sapeva dell’urto su una roccia. «Anche quando hanno lanciato i 7 fischi lunghi, seguiti da uno corto per ordinare l’abbandono della nave, per lui era solo di emergenza. Questo atteggiamento mi ha irritato tantissimo, perché significava negare l’evidenza. Anzi, nonostante l’ordine di abbandono, continuava a bloccarci. Inoltre, avevamo difficoltà a comunicare con il resto dell’equipaggio formato da filippini, marocchini, coreani e così via che non conoscevano l’italiano. Noi abbiamo avuto la fortuna di incontrare questo commissario italiano, ma non so come gli altri abbiano comunicato nel caos che si è scatenato in meno di un minuto dopo l’ordine di abbandonare la nave». Torniamo all’ordine di abbandono. Dopo i 7 fischi, la situazione è precipitata. [Silvia] «Ci siamo sentiti presi in giro perché, nonostante il caos e l’ordine di abbandono, ci hanno ordinato di metterci in fila con calma, ma molti spingevano. Il disordine era totale. Saliti sulla scialuppa, ci siamo sentiti dire che eravamo in troppi, che la lancia rischiava di cadere giù. Ci hanno fatto uscire e siamo ritornati sulla nave». [Giovanni] «Ci hanno detto di recarci alla scialuppa a fianco. Questo è stato il mio errore. Siamo usciti tutti e tre dal-la scialuppa, per favorirne la discesa in acqua, ma le altre scialuppe vicine erano tutte piene e pronte a scendere». [Sivlia] «Non è possibile essere ingannati in questo modo. Sentirsi dire che si può andare alle altre scialuppe e trovarle già piene. Abbiamo corso avanti e indietro sul ponte della nave, quando ormai non c’era quasi più nessuno». Ho saputo che nella confusione avete perso anche Leonardo, il più piccolo dei vostri 3 figli. [Silvia] «Una signora ha visto mio figlio spaventato mentre eravamo sul ponte, se lo è abbracciato dicendogli di non preoccuparsi. Io, intanto, stavo avvisando mia figlia. Ad un certo punto, ci siamo accorti che non era più con noi. Mi sono agitata moltissimo. Una tragedia. Certo, poteva anche essersi messo in salvo, e dopo? Chi mi avrebbe assicurato che lo avrei ritrovato? Un signore ci ha poi chiesto chi stavamo cercando e, dopo aver descritto mio figlio, siamo riusciti a ritrovarlo». Cosa avete pensato in quegli attimi drammatici? [Giovanni] «Non abbiamo pensato a niente, solo a trovare un modo per abbandonare la nave e metterci in salvo. Sapevamo che ci avremmo potuto lasciare la pelle in un momento qualsiasi». Avete pensato, in assenza di una soluzione immediata, di gettarvi a mare? [Giovanni] «Assolutamente, era molto alto e l’acqua era fredda. Per fortuna, alla prima lancia libera, ci siamo fiondati. In un minuto siamo scesi giù. Siamo stati tra i primi, anche se, appena toccata l’acqua, un’altra lancia stava per cadere sopra di noi, ma ci ha sfiorato appena. Ci siamo diretti verso la vicina costa con lentezza, anche per recuperare qualcuno finito in mare. In quel momento sono arrivati i primi soccorsi dalla capitaneria. La polizia, invece, è arrivata dopo una mezz’oretta». Giovanni, i soccorsi sono stati tempestivi? «Assolutamente no, soprattutto da parte del personale di bordo. I soccorsi da terra sono arrivati con ritardo perché con molto ritardo è stato richiesto il loro intervento da parte del comandante. L’SOS è arrivato alle 22.43, praticamente un’ora dopo l’urto. Anzi, per quanto ho saputo, la Guardia Costiera è stata avvisata dai passeggeri stessi attraverso i telefonini». Giovanni, una volta sbarcati sull’isola, dove vi hanno portati? «In una chiesa vicina il porto. Abbiamo avuto un’accoglienza straordinaria da parte della popolazione del luogo. Hanno portato coperte, lenzuola, cibo, vestiti. Certo non bastavano per 4mila persona, però la loro solidarietà è stata sorprendenti. Ci siamo arrangiati in una cartolibreria, dove abbiamo passato la notte intera. La titolare ci ha portato dalla casa felpe, maglioni, anche scarpe. La mattina siamo stati contrassegnati e dopo siamo partiti verso Santo Stefano, dove siamo stati rifocillati. Abbiamo qui trovato Carabinieri, Esercito, Finanza, Croce Rossa. Mia moglie era anche senza scarpe da quasi 12 ore e le hanno dato delle scarpe termiche. Sulla nave portava le scarpe con i tacchi alti ed è stata costretta a togliersele per evitare di inciampare. Con dei pullman siamo stati portati in una scuola per appena qualche ora e siamo ritornati a Civitavecchia». Siete stati ospitati in un hotel. [Giovanni] «Certo, ma non saremmo dovuti partire il giorno stesso, perché la priorità era stata data agli stranieri. Però, trovata una coppia di Bisceglie, ventenni sposatisi appena una settimana prima, siamo tornati con loro in Puglia. Non volevamo più restare. Mia moglie è tornata a casa con un paio di ciabatte estive, noi con delle felpe avute dai cittadini dell’isola. Abbiamo perso tutto, indumenti e soldi. Mi è rimasta la scheda della camera e un cellulare». È stata la prima esperienza di crociera? [Silvia] «Sì, dovevamo festeggiare le nozze d’argento dell’8 dicembre scorso, perché nel 1987 non abbiamo potuto fare il viaggio di nozze. Avrei preferito andare a Sharm el Sheik, ma a Giovanni non piace l’aereo e abbiamo preferito la crociera. Dovevamo divertirci con questa vacanza regalata dai nostri parenti e, invece, abbiamo rischiato di non tornare più a casa». Silvia, avete intenzione di ripetere in futuro una crociera? «Assolutamente no, dopo aver vissuto un’esperienza così tragica e terribile che ti segna dentro. Certo, sono casi che possono accadere, ma viverli sulla propria pelle è diverso. Sono momenti che non si possono descrivere». Secondo quanto accertato dagli inquirenti, il comandante Schettino avrebbe modificato la rotta per la sciagurata usanza dell’inchino. [Giovanni] «Leggevo questa mattina (lunedì 16 gennaio, quando è stata realizzata l’intervista, ndr) che su facebook proprio alle 21, mezz’ora prima dell’urto, il comandante aveva lasciato un post, credo, alla sorella per annunciare che avrebbe eseguito di lì a breve la manovra dell’inchino per salutare l’isola. Altro che inchino, la nave si è proprio stesa». Quando siete tornati, qual è stato il primo pensiero? [Giovanni] «Fortunati per essere tornati a casa. Abbiamo perso tutto, ma la vita è la vita. Noi siamo stati fortunati e lo possiamo raccontare, altri no. Se ci fossimo attivati più tardi rispetto a quanto abbiamo fatto, forse non ci saremmotornati a casa. Allo stesso tempo, se non si fosse creato quel caos, forse, oggi avremmo pianto molti più morti perché era l’orario di cambio per la cena».
Autore: Marcello la Forgia