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Tra Chateaubriand e Lamartine
15 novembre 2012

Di Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine fu ammiratore ed estatico apologeta Giacinto Poli che, nelle sue opere, evidenziò inequivocabilmente il concetto di amore come fatalità (tramite anche la lettura del Renè di Chateaubriand) e fu incline a cedere alle lusinghe dell’esotismo del Voyage en Orient. Lamartine fu icona del legame privilegiato tra musica e letteratura tipico dell’Ottocento; egli aveva influenzato anche Listz che, nel 1834, aveva composto Harmonies poètiques et religieus, ispirandosi prorpio al ciclo poetico di Lamartine. Ha sostenuto Giovanni De Gennaro, profondo conoscitore e studioso di Poli, che il poeta molfettese sentì come propri Chateaubriand e Lamartine, giacché in essi trovava eco al suo dramma esistenziale, derivante dalla morte della moglie e di due figli. L’assimilazione e l’influenza degli autori francesi appare particolarmente nel Discorso sulla musica e dell’utilità sua nel sistema educativo, pubblicato a Trani dalla Tipografia Cannone nel 1870. Echi del Genie du Christianisme (Parigi 1802) sono ben chiari in Poli quando scrive che «emerge il Cristianesimo, e la musica risorge, ché il regno di Lei come quello di Cristo è il regno dei Cieli!...s’incorpora nell’ideale di nostra Religione, rende più ineffabili i suoi misteri, canta spassionatamente i sospiri amorosi degli Angeli per il loro sommo fattore, e di là viene una eco che innammora irresistibilmente del Paradiso!». Chateaubriand aveva anche affermato che «il Cristianesimo è serio al pari dell’uomo, ed ha grave persino il sorriso. Non ci ha niente di più soave delle querimonie che muove la religione sui nostri mali, e l’uffizio dei morti, in questo genere, è un capolavoro, tal che par proprio ch’ei ti faccia udire il sordo rimbombo del sepolcro». Nella parte dedicata al canto gregoriano, a proposito dell’ufficio della Settimana Santa, aveva scritto che «è assai toccante il Passio di san Matteo, perocchè ivi la recitazion dello storico, le grida del popolazzo ebreo e la nobiltà delle risposte di Gesù compongono un dramma patetico più che mai». Si chiedeva poi: «il Pergolesi, nello Stabat Mater, ha fatto sfoggio di tutta la dovizia dell’arte sua; ma è giunto fors’egli a superare il semplice canto della Chiesa?». Poli, dal canto suo, indugiò a rievocare la missione del 1856: «non negherete al canto una influenza quasi ammaliatrice, sugli affetti dell’animo nostro, e sulle sue passioni»; di Madame de Stael riferiva che «un dì l’autrice della Corinna passeggiava per la poetica città delle lagune nel passare avanti una Chiesa…sente delle voci argentine, che la commuovono, e rapiscono…una forza irresistibile la spinge ad entrare…venivano quelle voci da invisibili giovanette claustrali, che deponevano cantando i gemiti del loro cuore, con i misteriosi, e profumati incensi, che se ne esalavano sull’ara della mistica Rosa d’ogni ineffabile mistero creativo simboleggiatrice!» Emblematiche appare il riferimento ai sacri canti «modulati da rosee labbra, e da Leviti precinti dalla bianca stola di bella innocenza, chi puote rimanere insensibile alla loro potentissima affascinazione?... Io stesso non posso ascoltarli senza una commozione che va spesso al pianto!». Poli fu anche raffinato pedagogista quando si preoccupò che l’uditorio dell’ “Assemblea promotrice di pubblica istruzione molfettese”(cui egli rivolgeva il Discorso sulla musica) non abbandonasse l’idea di «fare entrare la musica con il canto nell’educazione dei fanciulli, e dei giovanetti, infervoratevi innamorarne le diverse classi più di quello, che già non sieno. E propagarne il gusto con sollecitudine operosa […] Il Molfettese aspira al canto come l’uccello alla luce![…] Qui compositori commendevoli, dilettanti in suono, e canto a dovizia d’ambo i sessi, e tali che contrasteriano le palme a non spregevoli Artisti!». Precorreva i tempi, raffinato e solitario intellettuale

Autore: Giovanni Antonio del Vescovo
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