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“Terre Libere”, analisi di una 'rivoluzione', non solo studentesca, mai attuata Il seminario organizzato dalla rivista culturale, grazie al contributo di docenti, ricercatori e dottori di ricerca, ha chiarito i motivi della protesta in atto contro un sistema universitario corrotto dall'alto; una lucida ricostruzione storica tra l'indifferenza, o licenza, di tutti gli schieramenti politici e l'evasione dalla prima legge della Repubblica, la Costituzione
30 dicembre 2010

MOLFETTA – La conferenza “Scuola , università e cultura al tempo della barbarie” , organizzata a Molfetta dalla rivista culturale “Terre Libere”, partendo dall’attualità della rivolta studentesca contro il Ddl Gelmini, ha analizzato lo stato del ‘diritto alla conoscenza’ nel nostro Paese dipingendo un nitido quadro storico del come e perché si è arrivati ai recenti fatti di cronaca.
Questo grazie al contributo di professori universitari e liceali, ricercatori, dottorandi di ricerca che oltre a fornire una visione interna della problematica istruzione hanno messo in luce aspetti, noti o meno, semplificando la chiave di lettura del fenomeno. Un fenomeno che affonda le sue radici nel tempo e di cui sono stati chiariti aspetti gestionali, sociali, psicologici, antropologici, che trovano le cause soprattutto nel malcostume del sistema nepotistico tipico degli atenei, in concorso con la scarsa moralità dei politici italiani dell’ultimo ventennio e oltre. La scarsa partecipazione popolare, indotta e forse voluta ma non giustificabile, ha portato a quello che sta diventando il nostro Paese nella sua globalità.
Grave la responsabilità politica, nel tempo, di proporre una ‘educazione’ alternativa dimenticando i principi veri dell’umanesimo distruggendo così da anni il rapporto dell’uomo con la ‘filosofia’ della vita, annientando la natura per creare un modello di vita che visto dalla Luna sembrerebbe un formicaio in continuo movimento senza senso, proprio come il ruolo dell’uomo sulla Terra che, ad ogni passo avanti della tecnologia, continua ad indietreggiare dimenticando da dove viene e dove è diretto il suo viaggio.
Tutti e tutto dimenticando che almeno per adesso, nonostante dissensi di vario genere ‘L'Italia è una Repubblica dove la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione’.
L’incontro
Proprio ricordando uno dei principi cardine della carta fondativa, il moderatore dell’incontro, Giacomo Pisani direttore di “Terre libere” e redattore di "Quindici",
nel suo intervento conclusivo ha citato l’articolo 33 della carta che recita “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento […] Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”.
Si è partiti dal contributo finale per dare la profondità e l’incisività della successione di paroledegli altri relatori intervenuti: Marino Centrone, professore di Filosofia della Scienza all’università di Bari, Rossana de Gennaro, docente di Filosofia al liceo scientifico di Bisceglie, Enrico Mastropierro, dottore di ricerca in Filosofie e Teorie Sociali dell’università di Bari, Onofrio Romano professore di Sociologia dei processi comunicativi e culturali all’università di Bari e Laura Marchetti, università di Foggia.
«L’ultimo numero di Terre Libere – ha precisato Pisani prima dell’inizio della conferenza – è interamente dedicato alla riforma con vari approfondimenti, fornendo punti di vista e prospettive di chi lavora all’interno della struttura, voci spesso inascoltate dai media». Pisani ha poi sottolineato che i disagi e le reazioni degli studenti al solito sono state strumentalizzate, vivendole lui stesso da studente, e che il tutto parte da condizioni e conflitti più profondi.
«Seguendo le linee programmatiche della legge – ha proseguito – viene annullato il più naturale luogo di riflessione di un giovane uomo verso il suo futuro; siamo qui per far capire che gli atenei sono prima di tutto contenitori culturali, non aziende».
L’incontro(Cenni storici)
Centrone, aprendo la conferenza, ha subito elencato i componenti (professori ordinari, associati, aggregati, ricercatori, e dottori di ricerca) del corpo docente evidenziando che lo ‘zoccolo duro’ del sistema è composto proprio dai più colpiti dalla riforma, i ricercatori e i dottori di ricerca.
«Dalle 80-100mila possibilità di accedere all’università come dottori di ricerca – ha affermato il professore –  il numero verrà drasticamente tagliato. In molti casi sono già di persone già formate sui cui si è investito, per non parlare del ruolo del ricercatore: dopo 6 anni o diventa professore associato o deve fare i bagagli».
Centrone non manca di ricordare che già dal ’77 chi cominciava a denunciare la struttura ’feudale’, ancora attuale, in ordine alla gerarchia delle posizioni universitarie occupate, trasmesse o ereditate, rientrava nei così detti cattivi maestri “padovani” a cui si dava la ‘caccia per la colpa’ di difendere la democrazia del sapere.
«Molti docenti all’epoca – spiega il professore - furono ingiustamente accusati di essere terroristi o anarchici violenti e molti furono costretti a scappare perché turbavano la crescita dei giovani. Ricordo bene la ricchezza di fantasia, di vita dell’epoca concretizzatasi poi in tanti movimenti artistici. E’ seguita poi una fase, che dura tuttora, o meglio una manovra implosiva nei confronti di chi voleva e vuole seminare cultura».
Seguirono i fallimenti di un comunismo assestato ma mai realizzato e pian piano si spensero gli entusiasmi ma soprattutto i professori iniziarono a vestirsi di ‘grigio’, ‘come a voler mettere un tappo’ - ha precisato Centrone – sulla conoscenza, ritenuta pericolosa e poi iniziò l’epoca della Baronia massonica che a Bari trovò una delle sue sedi ideali ‘.
«La partita è ancora in gioco - conclude – so che qui si entra nel campo della politica ma stante la situazione attuale è necessario che in Italia si trovi una corrente alternativa al più presto, per evitare l’irreparabile. Bisogna tornare alla politica vera, ne abbiamo bisogno».
I motivi di una protesta generalizzata
Si entra poi nel merito dell’offerta qualitativa dell’università.
Una offerta ‘scaduta’ per molti già in declino con l’inserimento dei 3 anni più 2 e l’impacchettamento dei corsi in semestri, soprattutto nelle facoltà umanistiche dove il dialogo è lo strumento prioritario d’insegnamento, e le denunce su chi, superati i 70 anni non vuol ‘mollare’ la cattedra, realtà tutta italiana essendo già stato abbassato, in molti Paesi europei, il limite d’insegnamento ai 65 anni.
Questa ‘vecchia casta’ di insegnanti inoltre blocca quel necessario turn-over con i più giovani rendendo impossibile l’accesso nel sistema.
La prima necessità che emerge è quindi una riorganizzazione più funzionale del corpo docente e uno ‘svecchiamento’ dello stesso per dare nuova linfa e idee al complesso compito dell’istruzione.
Messo in luce anche il ruolo dei media nazionali che hanno dedicato poco, e qualitativamente basso, spazio alla questione facendo filtrare solo i riflessi negativi della protesta.
L’insegnante liceale de Gennaro nel suo intervento ha ‘bocciato’ l’atto normativo del 2008 che ha riportato la scuola elementare indietro negli anni con il graduale ritorno al maestro unico, al voto in condotta, al ridimensionamento del quadro orario ,spezzettando cattedre e percorsi didattici.
Date come ‘innovazioni’ migliorative, sono frutto invece di una programmatica politica di tagli alla scuola, arrivando al 46 % di fondi in meno che significa meno qualità nella formazione, meno docenti e corsi, fino ad arrivare a certi casi estremi dove non ci sono soldi nemmeno per la carta igienica.
Sulla strada invece 200.000 precari.
«Un licenziamento di massa – sottolinea anche la docente - che getta via persone come oggetti, persone tra l’altro già formate che non si son potute inserire per la mancata progettazione dei turn over».
E’ inutile ricordare che l’età media degli insegnanti italiani, come quella di molte altre professioni, è tra le più alte d’Europa.
Il dottore di ricerca Mastropierro è tornato sui fatti di Roma, incidenti e violenze, parlando delle nuove generazioni come una fascia senza quella qualifica sociale che il lavoro dava un tempo, un assioma della filosofia classica.
Il suo paragone tra i giovani che protestavano e “Le milizie napoleoniche” che a metà ‘800 venivano reclutate tra la povera gente, costretta a combattere contro i propri interessi così come chi per un lavoro doveva vendere le su idee al fascismo, hanno fatto rabbrividire ma anche riflettere.
Riflettere sull’importanza dell’indipendenza delle lotte (di classe, di genere, dei lavoratori, etc.) i cui obbiettivi non sono quasi mai raggiunti senza la consapevolezza della forza che ha l’unità d’intenti evitando la mediazione dei sindacati con una politica clientelare. Per questo la lotta studentesca, si è ripetuto più volte, non deve avere etichette di sorta.
L’analisi
La de Gennaro ha posto l’accento sulla condizione psicologica dei giovani, citando ‘L'epoca delle passioni tristi’ opera di due psichiatri francesi che indaga l’orizzonte temporale e sociale di questi ultimi decenni che da futuro-promessa si è trasformato in futuro-minaccia.
Una ‘patologia’ che infiltratasi dall’esterno in organismi sani ha preso poi il via deviando la visione che l’individuo ha del reale e di se stesso: crisi delle idee di progresso e di rivoluzione intesa come rinascita, come possibilità dell’uomo di modificare la realtà; una strada intravista da Freud quando parlava di "disagio della civiltà", Nietzsche di "morte di Dio" ma più di tutti dal filosofo Spinoza che già nel ‘600 scoprì le "passioni tristi".
«Lo smarrimento dei giovani – precisa la professoressa – è un male sempre esistito ma l’aumento dei casi di depressione o altre ‘patologie’ della psiche sempre più spesso trova causa nel comune stato di incertezza in cui si trovano. Da qui, nell’impossibilità di potersi esprimere e realizzare, deriva quella forte rabbia già sfociata a Parigi tempo fa per poi invadere le piazze di più città europee e non solo.
I ragazzi hanno bisogno solo di essere ‘ascoltati’ dalla politica peri riconnettersi al loro bisogno di autodeterminazione
».
Un ascolto finora dimostrato solo dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che dopo l’approvazione del Ddl Gelmini ha voluto ascoltare le parole di una delegazione composta non solo da studenti ma anche da ricercatori e dottori di ricerca.
Mastropierro invece ha puntato il dito sull’ego dominante…
«La storia ci ha insegnato che l’etica dominante è quella dell’ego – ha detto a chiare lettere il dottore di ricerca – un isolamento che ha portato alla sconfitta di tutti perdendo quel peso che un popolo libero deve avere nella storia del suo Paese. Un’etica sociale e condivisa è l’unico strumento che può cambiare la sorte delle masse reazionarie.
Come una volta il proletariato straccione, oggi noi e sempre più categorie in uno stato di ‘sub-proletarizzazione
».
Il ritorno all’uomo
Tra le osservazioni più interessanti emerse, il peso dato a certe materie.
«Il sapere umanistico è alla base della formazione di ogni individuo – ha spiegato la de Gennaro – E’ impossibile formare una generazione ‘sana’ senza i giusti ritmi mentali che solo la filosofia, la letteratura, e altre materie d’indirizzo sanno imprimere nell’anima e nella psiche di un individuo in crescita senza ancora una capacità di giudizio critico formata come quella di narrazione, d’immaginazione, di creazione. Il neo-liberismo scolastico ha sparso il suo veleno sulla scuola e di conseguenza sui nostri ragazzi».
La rabbia sociale
Il professore Romano, tornando sul discorso della de Gennaro, è entrato nello specifico riguardo quella forte e diffusa rabbia che col tempo ha saturato gran parte dei lavoratori, oltre che degli studenti, del mondo universitario.
Una rabbia acutizzata dall’impossibilità di agire in un sistema chiuso che non dava spazio a valvole di sfogo.
«Queste violente dimostrazioni di protesta –  ha specificato il professore – vanno ovviamente ribaltate in forme pacifiche, costruttive e durature. Abbiamo avuto una mobilitazione nel complesso blanda dovuta ad una chiusura orizzontale delle varie categorie (studenti, ricercatori, etc,).
Quello che però io dico ‘perché così poca rabbia e non così tanta’?
Purtroppo la vera causa della rivolta non trova principi unificanti ed è nutrita da apatia e da una scarsa partecipazione politica, nel significato più puro della parola. Non esiste una visione forte della società- ha sottolineato - società in cui vanno avanti i servi in un mondo dove l’intero corpo sociale si corrode generando rabbia o annichilendo come amebe restando a casa, invece di percorrere vie più costruttive.
E’ una pazzia, perché questo?
Per colpa della corruzione – ha risposto - che non lascia spazio al merito e la riforma del sistema d’istruzione è lasciata nelle mani di un ministro che presentò una tesi di laurea che valeva uno come punteggio….
E’ più che normale che questo stato di cose abbia provocato una esplosione schizofrenica sfociata nella violenza. Non la giustifico ma la capisco.
Se la Gelmini parla di meritocrazia provoca schizofrenia e violenza, l’unica reazione possibile in cui ognuno si sente realizzato e rappresentato, dopo due anni di battaglia dura su altri campi( infiniti documenti spediti alla stessa Gelmini, Napolitano) per trovare una soluzione meno penalizzante e frustrante.
Anche nello stesso coordinamento direzionale non c’è coesione di idee per poter invertire direzione e cambiare una legge che in pochi conoscono per intero.
Lo so è sconvolgente ma tutto è possibile seguendo la logica della fiducia ‘comprata’. Ci stanno levando entusiasmo e forza, il gioco di chi ci comanda
».
Critiche ai modelli scolastici e Soluzioni proposte
Tante lotte divise, questo il punto debole. Una frammentazione che non porterà mai ad un bene comune e come ha ricordato uno studente ‘dobbiamo diventare tutti militantii’ per arrivare a mettere almeno un punto a favore.
La professoressa Marchetti oltre alla critica, ha proposto valide alternative e ascoltando le sue parole s’intuisce che non è poi così difficile trovare idee, ragionando con sapienza e saggezza. Molto più difficile comporre un fronte comune e compatto.
«La politica – ha chiarito subito la professoressa – deve aver una chiara visione generale del tema principale ovvero l’educazione e la sua forma nel rispetto della democrazia. Questi i punti base per elaborare un programma.
Proprio in partenza si è fallito, sia dalla sinistra che dalla destra: da molto tempo in Italia la sinistra si è appoggiata ai modelli‘omologati’ proposti dalla destra senza alcuna novità o ricordandosi che si evadevano i punti di partenza stessi.

In un testo di Freud del 1910 – ha ricordato - che tratta del suicidio di uno studente delle superiori, il padre della psicanalisi dà la responsabilità della morte del ragazzo alla scuola che non è riuscita nel suo compito: insegnare il piacere trascurando, se non creando così, le cause di un istinto di morte prematuro.
Stanno riportando la scuola a quella in cui vige l’autorità – ha dovuto ammettere - dove l’ora di lezione è troppo seria, claustrofobica e chiusa, simile ad un internamento fascista.
Basta guardare la struttura della classe: ogni individuo è isolato e costretto a guardare davanti l’insegnante, il tutto scandito da un tempo rigido e salendo alle superiori o all’università anche il linguaggio è diventato meccanico e freddo:
crediti, debiti, moduli, etc…Inoltre si trascura l’autostima personale che proviene innanzitutto dalla ‘libertà’ di poter sbagliare, cosa proibita!

Non c’è più spazio per i desideri, l’immaginazione e si è spezzato quel circuito affettivo che caratterizzava la scuola di un tempo, più ludica, gioiosa partendo dal principio del piacere.
Si è aggiunto poi il concetto di idea come risorsa così come nel” Trattato di Maastricht” si stabilì che la natura dovesse entrare nel ciclo dell’economia: allo stesso modo la conoscenza è diventata ‘mercificata’ con una scuola che si adatta sempre più a ciò.
I bambini non sono risorse, i saperi umanistici devono riprendere la loro funzione educativa. Di qui la necessità di un nuovo Umanesimo.
Inoltre regna sovrana l’ ossessione del pc e dell’informatica, che cattura sogni, creatività, fantasia e la visione critica del reale sia al bimbo che all’adulto.
In ultimo la scuola italiana sta andando contro natura, e la nostra Costituzione, favorendo correnti che determineranno sempre più una privatizzazione del sapere già intravista  nell’università. Vedi l’influenza delle multinazionali farmaceutiche nelle facoltà di Medicina…
Ai giovani, e non solo, il compito di rielaborare una nuova fase della vita umana dove la scienza, la tecnologia tornino ad occupare posizioni più marginali e il rapporto uomo-natura porti alla ricostruzione di quel che si è distrutto,  sperando di non arrivare a concepire un uomo nato da un Dna di laboratorio, rimettendo però in discussione certi assunti fideistici».
Posizioni studenti universitari
I ragazzi che si sono alternati nel dibattito finale hanno più o meno lanciato lo stesso messaggio, desumibile dalle seguenti affermazioni
«Noi studenti baresi – interviene un ragazzo nello spazio lasciato al dibattito - non
vogliamo una politicizzazione della protesta, che pure in certi casi esiste.
Il mio appello è rivolto a tutte le persone a cui si stanno calpestando i diritti: anche se in pochi dobbiamo convergere verso una condivisione dei problemi di tutti, con buona pace dei sindacati. Tutte le categorie sociali devono mobilitarsi per riappropriarsi della loro vita.

Le varie organizzazioni studentesche per più di un anno e mezzo, l’inizio della storia dela legge, non hanno mosso un dito.
Non ci si poteva opporsi prima dell’inizio dell’irreparabile? Dov’erano prima?
Sono stati inseriti, dopo attenta lettura del Ddl,  3 consiglieri esterni nel Cda delle università. Ma si credono siamo stupidi?

Questi metodi subdoli non serviranno a farci demordere. Quel salire propagandistico di alcuni politici sui tetti occupati delle facoltà se lo potevano risparmiare ‘lavorando’ in Parlamento a tempo dovuto.
E’ stata una brutta presa in giro da ogni posizione e tutte le forze politiche hanno contribuito al progetto sfociato nel disegno di legge Gelmini.
Sscusate se proviamo un po’ di rabbia. Rabbia sfociata in un momento in cui oltre a protestare ci siamo visti cadere in testa l’ennesima prova di come questo Paese è governato,  quando è stata data la notizia della fiducia al governo Berlusconi, tutto per un gioco ‘comprato’ e mirato a prese di posizioni di potere.
Scusate se esistiamo, siamo giovani e ragioniamo ancora con la nostra testa…
».
Conclusioni
E’ Vito Copertino, professore ordinario della Università della Basilicata, a chiudere la serie degli interventi unendo idealmente le tante trame di questo incontro e spiegare le ragioni e l’impegno della rivista “Terre Libere”.
«Il momento storico è favorevole a  un risveglio delle coscienze – ha analizzato Copertino – a favore di iniziative politiche ‘pulite’. “Terre Libere” e l’associazione culturale “Linea 5” nascono con l’obbiettivo di diffondere le esperienze, come quelle ascoltate, per un sentire comune. Vedo molti sbocchi all’orizzonte, proprio in questo periodo definibile di ‘barbarie’ per la cultura in generale.La professoressa Marchetti ha posto un ‘dizionario’ per uscire dal tunnel delle non proposte anche se“Terre Libere” non è un partito ma una rivista che può contribuire materialmente con le sue idee alla crescita dei partiti di sinistra, dato che non condividiamo quello che ha fatto sinora la destra. Ovvero portare l’Italia in questo stato attraverso un trasformismo, mascherato da un nostalgico e tramontato liberismo, a cui la sinistra non si è mai opposta: oltre all’incapacità ‘storica’ di agire, che molti le contestano, spesso si è anche prestata ad un gioco che non ha certo fatto gli interessi della gente.
Noi siamo qui con voglia di reagire dando quell’ABC di partenza per una proposta alternativa al Ddl Gelmini in direzione di uno spazio più ampio e condiviso di cultura, idee, etc…
Siamo ad un passo della privatizzazione del sistema, la soglia di attenzione deve rimanere alta da parte di ogni componente della società civile
».
Le lotte sociali non mancheranno mai su questo pianeta fino a che non si arriverà alla consapevolezza che "L'unica vera rivoluzione è quella morale. Tutte le altre non sono che infelicità, spargimento di sangue e lacrime perse" diceva meno di un secolo fa il medico e scrittore francese Georges Duhamel.
 
© Riproduzione riservata

Autore: Domenico Sarrocco
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1° Parte. - Viviamo in società scontente di se stesse, ma nelle quali ciascuno coltiva per se stesso progetti e attese più positive. Si tratta di una situazione opposta a quella nella quale abbiamo vissuto a lungo, in cui gli individui vedevano tutto nero in una società al contraria contenta di se stessa. In breve, assistiamo a un trasferimento di valori dalla società verso gli individui ed entriamo, quando ci riusciamo, in una nuova figura del mondo economico. Prendiamo il caso della scuola. In questo campo le idee sono ancora confuse e le scelte difficili. In molti paesi, come la Francia, la scuola ha avuto il compito di preparare ed educare alla società i lavoratori e i cittadini. La scuola stessa afferma di non dover tenere in considerazione le differenze tra gli alunni, perché questo la condurrebbe, o almeno così sostengono i suoi rappresentanti, a interessarsi maggiormente agli studenti più attivi provenienti dagli ambienti avvantaggiati. La scuola non è al servizio degli studenti; deve aiutarli ad acquisire conoscenze generali e senso della disciplina oltre che a rispettare l'organizzazione della società e della nazione. E il pensiero che ha ispirato i licei tedeschi e francesi, classici e scientifici (nel caso della Germania, prima dello sconvolgimento prodotto dal nazismo). Questa concezione è chiaramente riassunta dalla definizione dell'educazione come fattore di socializzazione e dall'idea complementare che una riuscita socializzazione crea individui liberi e responsabili. Essa ha prosperato a lungo sul monopolio di fatto dei licei pubblici e sulla buona qualità professionale degli insegnanti in una situazione economica che assicurava alla maggioranza degli studenti un posto nel mondo degli adulti. (continua)
2° Parte. - Questo discorso e questa concezione della vita scolastica non sono ancora scomparsi, ma sono ormai allo sbando, e le lamentele fioccano da tutte le parti. Il dibattito sulla laicità non ha fatto altro che accrescere la confusione. Come si può continuare a considerare lo studente solo un futuro membro della società? Si può respingere la malafede così lontano da non vedere che, rifiutando di tener conto della situazione psicologica, sociale e culturale degli studenti, si aumentano i previlegi di coloro che appartengono a un ambiente colto, che godono delle migliori informazioni e sono quindi in grado di elaborare progetti per il futuro? Non bisogna invece avere il coraggio di dire che la scuola, che dovrebbe favorire l'uguaglianza, tende a rinforzare le diseguaglianza moltiplicando gli ostacoli sul cammino di coloro che provengono da ambienti meno privilegiati e dalle minoranze culturali, il numero ridotto di figli di immigrati che raggiungono posizioni elevate nella società? Gli insegnanti sono sconcertati perché si trovano a trasmettere nozioni a studenti che spesso non manifestano alcun interesse per i programmi scolastici e che a scuola si ritrovano già adulti, si annoiano. L'idea già vecchia che la scuola sia un santuario della vita pubblica, laddove le condotte religiose apparterrebbero alla sfera privata, è destinata a divenire insostenibile, perché sarà percepita da un numero crescente di studenti e genitori come repressiva e ingiusta. Il cambiamento di concezione della scuola è però troppo profondo per dipendere interamente dalla congiuntura politica. Siamo già tutti nella fase di passaggio che porta da una società fondata su se stessa alla produzione di sé da parte degli individui con l'aiuto di istituzioni trasformate. (fine)


C'è poco da produrre e distribuire quando non ci sono regole e controlli. Ciò che stiamo vivendo è la distruzione della società, ovvero della visione sociale, la distruzione di tutte le categorie nelle quali eravamo rinchiusi come in un'armatura da più di un secolo. Vediamo crollare intorno a noi società di produzione e venir meno le lotte sociali che, con il loro pungolo, ci hanno regalato svariati secoli di vantaggio sul resto del mondo. Ci stiamo avvicinando, più o meno in fretta a seconda dei paesi, alla fase in cui la capacità di accumulo scomparirà e il consumo prevarrà sulla produzione al punto tale da far gravare sulle generazioni successive il peso della crescita del debito pubblico. Le nostre società potrebbero diventare mercati, bazar, in cui ogni gruppo cercherà di vendere ciò che produce e di comprare al miglior prezzo i beni e i servizi di cui ha bisogno; al trionfo del consumo a breve termine sui progetti di sviluppo a lungo termine. Nella seconda metà del XX secolo, soprattutto nel ricco Occidente, abbiamo avuto a volte l'impressione di trovarci di nuovo immersi in fasi storiche analoghe a quelle precedenti al 1914. La globalizzazione rende tuttavia illusorio il tentativo di isolare un tipo di società (o perfino di società civile) e di descriverlo come il frutto di dibattiti e di scelte razionali operate in virtù di procedure fissate da una Costituzione. Necessitiamo, prima che sia troppo tardi, di un nuovo paradigma che ci faccia capire il presente e, il punto di partenza è senz'altro la globalizzazione, intesa non solo come una mondializzazione della produzione e degli scambi, ma soprattutto come una forma estrema di capitalismo, come separazione completa dell'economia dalle altre istituzioni, in particolare sociale e politiche, che non sono in grado di controllarla.

1° Parte.- L'11 settembre 2001 è la data di un attentato commesso a New York e a Washington; ma esso era stato preparato da attentati precedenti e ne annunciava altri successivi. In parecchie zone, molto diverse tra loro, del mondo arabo mussulmano si è assistito al moltiplicarsi dei “volontari” della morte: morte di sé e morte dei nemici. Quelli che da una parte vengono chiamati “terroriste” e dall'altra “eroici combattenti contro i nemici di Dio e della Nazione, sono anche dei guerrieri. Viviamo forse un movimento inverso, il ritorno alle comunità chiuse su se stesse, dirette da un potere autoritario e che rigettano come nemiche tutte le altre comunità? – Centinaia di milioni di esseri umani, costretti ad abbandonare il proprio paese per la miseria, la violenza sociale o le guerre, si trovano gettati sulla strada e confinati in campi di profughi. Una parte di loro, soprattutto in Cina, trova in città i mezzi per sopravvivere, o addirittura per entrare in un nuovo tipo di vita sociale. Questi giovani senza lavoro e attirati dalle promesse del consumo urbano, che tuttavia non possono entrare a far parte delle classi medie, vivono cambiamenti geografici e socio culturali che li distruggono più che farli entrare nella modernità. Nei paesi più ricchi, dove i cittadini sono più protetti, il bilancio degli ultimi decenni è negativo. Le disuguaglianze sociali aumentano e le scale sociali diventano troppo corte: i “golden boys” non ci collocano più in cima alla società nazionale, ma al di sopra di essa, e i precari e gli esclusi non si trovano più ai gradini più bassi della scala, ma al di sotto, sospesi nel vuoto. (continua)
2° Parte. - Lo stretto legame che aveva unito le rivendicazioni economiche e le lotte sociali dei salariati si è sciolto e sono i partiti politici, in particolare quelli di sinistra, ad aver maggiormente sofferto per questa separazione. I partiti di destra, al di fuori degli Stati Uniti, si definiscono solo in virtù della loro sottomissione alla superpotenza. La crisi e la disgregazione del paradigma sociale di quella che chiamiamo “vita sociale” hanno creato una situazione di caos in cui sono esplose la violenza, la guerra, il dominio dei mercati – che sfuggono a qualsiasi regolamentazione sociale -, ma anche l'ossessione identitaria dei vari comunitarismi. Nell'ultimo ventennio del Novecento allo Stato interventista si è sostituito quasi ovunque (e quasi completamente) uno Stato orientato innanzi tutto ad attirare gli investimenti stranieri e a facilitare le esportazioni nazionali, e nel contempo sono subentrate imprese che si fondono sempre più in gruppi transazionali e si associano a reti finanziarie le quali, basandosi su nuove tecnologie informatiche che, traggono grandi profitti dalla circolazione di informazioni in tempo reale. Queste rapide trasformazioni sono la conseguenza diretta di un'internazionalizzazione della produzione e degli scambi che sarebbe sfociata nella “globalizzazione” dell'economia. La globalizzazione, è bene ricordarlo, è una forma estrema di capitalismo che non ha più alcun contrappeso; un capitalismo estremo libero da ingerenze esterne, senza regole etiche e sociali, e in grado di esercitare il proprio potere su tutta la società. Un capitalismo senza limiti: un'ideologia che ha suscitato entusiasmo e sollevato contestazioni. Chi sono i due oppositori-contendenti? Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma per capire il presente e, soprattutto, per rivendicare i nostri diritti. (fine)

1° Parte. - Le università italiane. Perché non esercitano nel paese quell'influsso di regolatrici della vita culturale che esercitano in altri paesi? Uno dei motivi deve ricercarsi in ciò che nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente si avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo da una parte: lo studente si affida alle dispense, all'opera che il docente stesso ha scritto sull'argomento o alla bibliografia che ha indicato. Un maggiore contatto esiste tra i singoli insegnanti e singoli studenti che vogliono specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si forma, per lo più, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità accademica e per fortuna delle varie discipline. Si forma per esempio, per cause religiose, politiche, di amicizia familiare. Uno studente diventa assiduo di un professore, che lo incontra in biblioteca, lo invita a casa, gli consiglia libri da leggere e ricerche da tentare. Ogni insegnante tende a formare una sua “scuola”, ha i suoi determinati punti di vista (chiamati teorie) su determinate parti della sua scienza che vorrebbe veder sostenuti da “suoi seguaci o discepoli”. Ogni professore vuole che dalla sua università, in concorrenza con le altre, escano giovani “distinti” che portino contributi “seri” alla sua scienza. (continua)

2° Parte. - Perciò nella stessa facoltà c'è concorrenza tra professori di materie affine per contendersi certi giovani che si siano già distinti con una recensione o un articoletto o in discussioni scolastiche (dove se ne fanno). Il professore allora guida veramente il suo allievo; gli indica un tema, lo consiglia nello svolgimento, gli facilita le ricerche, con le sue conversazioni assidue accelera la sua formazione scientifica, gli fa pubblicare i primi saggi nelle riviste specializzate, lo mette in rapporto con altri specialisti e lo accaparra definitivamente. Intorno a certi professori c'è ressa di procaccianti, che sperano raggiungere più facilmente una cattedra universitaria. Molti giovani invece, che vengono dai licei di provincia specialmente, sono spaesati e nell'ambiente sociale universitario e nell'ambiente di studio. I primi sei mesi di corso servono per orientarsi sul carattere specifico degli studi universitari e la timidezza nei rapporti personali è immancabile tra docente e discepolo. Nei seminari ciò non si verificherebbe o almeno non nella stessa misura. In ogni modo, questa struttura generale della vita universitaria non crea, già all'università, alcuna gerarchia intellettuale tra professori e massa di studenti; dopo l'università anche quei pochi legami si sciolgono e nel paese manca ogni struttura culturale che si impernii sull'università. Ciò ha costituito uno degli elementi della fortuna della diade Croce-Gentile, prima della guerra, nel costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale; tra l'altro essi lottavano anche contro l'insufficienza della vita universitaria e la mediocrità scientifica e pedagogica (talvolta anche morale) degli insegnanti ufficiali. = Così scrive Gramsci nei suoi “Quaderni”. OGGI? (fine)
Le disuguaglianze economiche restano per molti il segno di una promessa chimerica di cittadinanza. I conflitti sociali che presumibilmente un secolo fa avrebbero tenuto banco in un ipotetico convegno mondiale sullo sviluppo sociale erano laceranti; e i rappresentanti dei governi a tale convegno immaginario del 1895 per lo più avrebbero raccomandato di sopprimere i disordini con la forza. Ci sono voluti decenni di lotte intestine – lotte di classe, come furono chiamate allora – per affermare l'uguaglianza di tutti gli esseri umani. E ci sono volute anche due guerre moderne: per quanto sia terribile a dirsi, non esiste un fattore di livellamento sociale più efficace di una guerra moderna che coinvolga l'intera popolazione. Non è un caso che la seconda guerra mondiale sia stata chiamata “guerra totale”. Queste guerre, naturalmente, non videro contrapposte l'una all'altra le grandi democrazie del mondo. A schierarsi sui due fronti furono rispettivamente i paesi civili e quelli non abbastanza (non ancora?) civili, quelli che almeno avevano cercato di allargare la base di disponibilità per ciò che offriva quell'epoca e quelli che non avevano ancora imboccato questa strada. Quando si profilano opportunità nuove ma la gente non riesce ancora a coglierle, quando lo sviluppo economico conosce una forte accelerazione ma la crescita sociale e politica stenta a decollare, matura una miscela di frustrazione e di irresponsabilità che alimenta la violenza. Tale violenza a volte è individuale e indiretta, ma può anche diventare collettiva e dirigersi contro vicini apparentemente più felici, contro membri particolarmente fortunati del proprio ambiente, o anche contro entrambi. Questo vale non solo in politica interna, in un paese dato, dove il privilegio è per definizione una negazione della cittadinanza degli altri, ma anche sul piano internazionale.

1° Parte. - Noi viviamo e moriamo in modo razionale e produttivo. Noi sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che l'attività economica deve proseguire, e che le alternative sono utopiche. Questa ideologia appartiene all'apparato stabilito dalla società; è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della sua razionalità. Tuttavia, l'apparato rende vano il suo stesso proposito se questo consiste nel creare un'esistenza umana sulle basi di una natura umanizzata. E se questo non è il suo proposito, la sua razionalità è ancora più sospetta. Ma è anche più logica, poiché sin dall'inizio il negativo è insito nel positivo, l'inumano nell'umanizzazione, la schiavitù nella liberazione. Questa dinamica è propria della realtà e non del pensiero, ma di una realtà nella quale il pensiero scientifico ha avuto una parte decisiva nel congiungere la ragione teorica alla ragione pratica. La società ha riprodotto se stessa in un crescente insieme tecnico di oggetti e di relazioni che ha incluso l'utilizzazione tecnica di uomini; in altre parole, la lotta per l'esistenza e lo sfruttamento dell'uomo e della natura è diventata sempre più scientifica e razionale. Il doppio significato di “razionalizzazione” è rilevante in questo contesto. La gestione scientifica e la divisione scientifica del lavoro hanno largamente aumentato la produttività delle iniziative economiche, politiche e culturali. Risultato: un più alto tenore di vita. (continua)
2° Parte. - Nello stesso tempo e per le stesse ragioni, questa impresa razionale ha prodotto un modo di pensare e di comportarsi che ha giustificato ed assolto anche le più funeste ed oppressive caratteristiche da essa palesate. La razionalità scientifico-tecnica e la manipolazione sono saldate insieme in nuove forme di controllo sociale. Si può restare paghi della supposizione che tale esito poco scientifico è il risultato di una specifica applicazione della scienza da parte della società? Il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti costituiscono l più imparziale delle accuse anche se non sono la “raison d'ètre” di questa società ma solamente il suo sottoprodotto: la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e di sviluppo, è essa stessa irrazionale. Il fatto che la grande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accettare la società presente non rende questa meno irrazionale e meno riprovevole. Gli uomini debbono rendersene conto e trovare la via che porta dalla falsa coscienza alla coscienza autentica, dall'interesse immediato al loro interesse reale. E possono fare questo solamente se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita, di negare il positivo, di rifiutarlo. E' precisamente questo bisogno che la società costituita si adopera a reprimere, nella misura in cui essa è capace di “ distribuire dei beni” su scala sempre e di usare la conquista scientifica della natura per la conquista scientifica dell'uomo. (fine)

1° Parte. - Più che di “esattezze”, abbiamo bisogno di inventiva, di coinvolgimento e in generale di tutte quelle risorse che le scienze umane profondevano con abbondanza e su cui oggi, invece, i progetti di riforma della scuola e dell'università lesinano. E questo nel tentativo di adeguarsi all'impresa che nel frattempo ha già cambiato volto, da quando ha preso a dubitare che la ragione tecnica sia una bussola più affidabile di quanto non lo sia la fantasia per i processi di trasformazione delle organizzazioni, siano esse aziendali, istituzionali o politiche. Il Celli ci avverte: “ Viviamo in tempi che non amano le emozioni dense. Senza grandi illusioni abbiamo imparato a giocare in anticipo le delusioni, attutendo la carica dirompente degli schieramenti che alimentano lo spirito di parte. L'età del compromesso quotidiano è anche il tempo delle passioni fredde, della presa di distanza, degli sguardi neutri, di quelle passioni depotenziate che subiscono il disincanto di una caduta pressoché generale dei valori collettivi”. Se è vero che il sentimento o come dice Celli, le passioni sono fuori moda nelle imprese, quando non addirittura fuori luogo in un mondo sempre più al dominio della ragione strumentale, è altrettanto vero che, scrive Celli: “Gran parte del decadimento della grande impresa e della sua capacità generatrice è anche attribuibile a questa decadenza delle passioni, mandate fuori corso in nome di una tardiva scoperta del mercato nella sua versione più esteriore e meccanicistica: eredità, anche, di un gigantismo gerarchico che aveva progressivamente deresponsabilizzato tutti i livelli e svuotando ruoli e funzioni”. (continua)

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