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Segni e colori, personale di Bruno Raco
15 settembre 2009

Con la curatela artistica di Natale Addamiano, ha visto la luce il 25 luglio presso la locale Chiesetta della Morte l’interessantissima prima personale dell’artista Bruno Raco, “Segni e colori”. L’esposizione è stata allestita nell’ambito delle manifestazioni organizzate dall’associazione molfettese As.so.Arte, nelle persone del Presidente Ing. Michele Losito e di Francesca Pappagallo, ai fini della valorizzazione culturale del nostro centro storico. Il giovane artista, che vive e lavora a Trani, dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte tra Corato e Bari ed essersi diplomato, ha studiato Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bari, dove si è laureato nel 2007, con una tesi sulla Pop Art. Ha già preso parte a numerose collettive a Palermo, Trani, Molfetta e Mola. La pittura di Raco rappresenta un affascinante mistero; la connota un astrattismo che, ben distante dall’essere mero gioco intellettualistico, appare dotato di straordinaria forza evocativa. Il titolo della personale esprime bene i tratti salienti dell’arte di Raco, che si estrinseca soprattutto in acrilici su supporto materico (stucco e vinavil): un segno che ora accarezza la superficie della tela, ora la graffia, quasi a volerne denudare la quintessenza; un colore in cui si trasfonde con energia il mondo circostante, mai negletto, ma intuito e decantato in “pasta cromatica”. L’esposizione si apre all’insegna del vigore nervoso delle creazioni collocate alla destra del visitatore, in cui l’animosa e scontrosa coesistenza del blu e del rosso cela forse l’impronta di un dualismo irrisolto, che violenta la materia. Poi il contrasto diviene più morbido; si fa strada una sorta di effetto acquario (tema caro all’artista, come finemente evidenziato da Natale Addamiano). Il pittore, infatti, dalla sua specola-acquario, scruta il cosmo come fosse un claustrofobico microsistema di creature immerse in un fluido, forse amniotico, forse no. In alcuni casi il segno si fa rilievo dai contorni disarticolati, quasi che la figura umana premesse al fondo della tela. Si tratta, però (ammesso che questa nostra ipotesi sia dotata di qualche fondamento) di una figura che ha perso ogni contrassegno dell’umanità e resta imprigionata nell’alveo di garbugli da scultura gotica, da cui, però, qualsiasi elemento identificante è raschiato via oppure ridotto a pura molecola. Dal bicromatismo si passa poiagli arabeschi tonali e al monocromo ed è qui che, a nostro parere, Raco raggiunge i suoi esiti espressivi migliori. Il paesaggio astratto sembra pulsare di vene danzanti al fondo di un tramonto che va dal rosso cinabro alle sfumature di violetto a un bianco di nubi non ancora fugate. Il motivo del groviglio emerge anche in un sinuoso garbuglio verde; eppure nella pace del giardino di delizie, persino in quello che dovrebbe essere, per dirla dannunzianamente, il “poema paradisiaco” di Raco, l’inquietudine affiora nelle zone d’oscurità, dove l’inganno ottico potrebbe persino indurre a scorgere mascheroni deformati nella smorfia di un urlo. Poi ci sono le tonalità dell’azzurro: la quiete del ghiaccio quasi parcellizzata da una lente cristallina; le piroette di molecole marine, foriere di una promessa di vita, o magari uniche creature viventi in un universo distillato o trasformato in un reticolo senza fine (mi sono tornati in mente, ma si tratta di creazioni totalmente differenti, i reticoli di Pietro Dorazio); un astratto cielo stellato, forse rappresentazione della quiete, o forse, come gli spruzzi di colore potrebbero suggerire, di una deflagrazione siderale che rompe il silenzio. Nella poesia di un blu che, se rappresentò per Picasso la tonalità cui affidare l’espressione di un dolore profondo, è qualcosa, come dice Giovanni Rizzoli, di “lontano dall’animalità del commestibile, un colore che allarga i confini… forse il colore del divino”.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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