Secondo il Pm, Silvia Curione, Azzollini era diventato amministratore di fatto dell’Ente da luglio 2009 “attraverso una sorta di colpo di Stato, demandando il controllo in loco a 3 suoi fedelissimi”. Azzollini avrebbe preteso il controllo dell’Ente in cambio di una legge che permettesse alla Divina Provvidenza di dilazionare i suoi debiti fiscali. Una legge ad personam, come ritiene la Procura e approvata nel 2002 per “interventi urgenti a favore delle popolazioni colpite da calamità naturali nelle regioni Molise, Sicilia e Puglia” che permette la moratoria delle scadenze tributarie e alle Onlus con sedi in quelle zone che abbiano almeno 2.000 dipendenti.
«Da oggi in poi comando io... se no vi piscio in bocca». La presunta minaccia l'avrebbe pronunciata il senatore Azzollini per convincere le suore a fare un passo indietro. Azzollini smentisce queste affermazioni, sostenendo che mai avrebbe potuto parlare in questo modo, soprattutto rivolgendosi alle religiose.
Secondo l’accusa alla Divina Provvidenza circolavano parcelle faraoniche, assunzioni clientelari e ben retribuite (alla figlia dell’on. Di Gioia sarebbero andati 119mila euro lordi l’anno). E questo anche in tempi di crisi con tagli al personale. E anche in questo era il senatore che sceglieva chi licenziare e chi no. Stabiliva anche le corsie preferenziali per fornitori e la svendita del patrimonio immobiliare a soggetti compiacenti. Insomma, tutto in base alla logica del clientelismo, che secondo i magistrati era il motore di questa associazione a delinquere e della successiva accusa di bancarotta.
Secondo gli inquirenti Azzollini decideva “assunzioni di personale e scelte di fornitori a lui graditi, al fine di ordire la propria egemonia sull’Ente e dunque di assicurarsi un sicuro bacino di consenso politico-personale”.
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