Sangue blu
Il racconto
Questa volta vi propongo un racconto estivo, divertente ma anche alquanto realistico che si basa su alcuni modi di dire piuttosto frequenti nel nostro parlar quotidiano. Pensate un po' cosa succederebbe se una mattina vi svegliaste come al solito rendendovi conto che vi sta succedendo qualcosa di molto, ma molto strano… D. A.
Che mia moglie avesse sangue blu lo sapevo da sempre, il suo alto casato era stato spesso oggetto di battute più o meno spiritose, ma che il suo sangue fosse veramente blu non l'avrei mai creduto.
Ma forse è meglio cominciare daccapo. Ero in bagno a radermi come ogni mattina quando lei si tagliò adoperando maldestramente un coltello da cucina. Sentii il suo grido e scossi il capo. Cercai i nuovi occhiali da vista comprati la sera prima e li inforcai. Non che ne avessi davvero bisogno, ma la vista cominciava a calare perché avevo superato i quaranta. E poi mi davano un aspetto da intellettuale che andava molto nel mio ambiente di lavoro. Stavo per correrle in aiuto quando la vidi precipitarsi in bagno alla ricerca di alcol e cotone reggendosi il dito gocciolante sangue.
Dovetti fare uno sforzo enorme e non mostrare il mio sbigottimento.
Il sangue era d'un bel blu brillante.
Lei mi lanciò un'occhiataccia rimproverandomi di restare impalato senza aiutarla. Scossi il capo, balbettai una scusa idiota. E da quel momento ogni cosa fu assurda.
Mi vestii velocemente tirando fuori a casaccio una cravatta. Feci per indossarla con una certa riluttanza. Le odiavo, le cravatte, mi ricordavano i cappi con il nodo scorsoio. La guardai. Stringevo in mano un cappio a nodo scorsoio. Aprii di scatto la mano lasciandola cadere e guardai le altre. Erano tutte cappi di corda a nodo scorsoio. Di diverso colore, a strisce, a pois, arabescate, ma sempre cappi. Le gettai tutte sul letto e indossai frettolosamente la giacca. Quel giorno sarei andato in ufficio senza la cravatta. Salutai con un debole "ciao" mia moglie che stava ancora lottando con il cerotto in bagno e uscii di casa. Non riuscii a fare un solo passo. L'ascensore aveva la forma di una lumaca. Spesso mi ero lamentato della sua lentezza, era un vecchio ascensore... ma averlo lì davanti agli occhi... così…
Naturalmente preferii le scale, mentre in me si stava facendo largo l'idea che forse quel giorno sarebbe stato meglio restare a casa. Quando giunsi al secondo piano la porta di quella testa di rapa del ragionier Bianchi si aprì e lui venne fuori come sempre, arzillo e impeccabilmente vestito, quasi andasse ogni giorno ad un matrimonio. Mi salutò affabilmente, con un cenno del capo. Capo?! No, al suo posto c'era una gigantesca rapa con tanto di foglioline in testa. Era troppo.
Mi fermai, controllai le pulsazioni, tossii leggermente e portai la mano alla fronte. A parte un leggero mal di reni ero nella solita forma. Decisi di non arrendermi. Al piano terra c'era la portinaia. Ovviamente era una grossissima civetta. Il postino aveva i piedi a papera e un cane gli addentava lo stinco. Mi consegnò una lettera. Il francobollo era del Regno delle due Sicilie. Mi fece un cenno di saluto e lentissimamente se ne andò.
Frastornato mi sedetti sui gradini. Avevo una paura tremenda di oltrepassare il portone. Chissà cosa avrei visto là fuori. Eppure una spiegazione doveva esserci, ma l'unica che riuscivo a trovare riguardava il cattivo funzionamento delle mie rotelle. La scartai subito. Presi gli occhiali e li pulii energicamente, poi li rimisi sul naso. Mentre il ragazzino della signora Carla scendeva a tre a tre i gradini. Appariva del tutto normale. Sorrisi, ma il sorriso mi si gelò sulle labbra quando lui mi giunse vicino. Riuscii a distinguere un paio di piccole corna tra i lunghi capelli e la coda che gli fuoriusciva dai calzoni. Era stato sempre un diavoletto... Quando mi passò accanto mi fece la solita boccaccia e ridendo si allontanò lasciando dietro di sé un sentore di zolfo.
Mi misi d'impegno a pensare. Che c'entrassero gli universi paralleli? Ne avevo tanto sentito parlare, ma non avevo mai preso sul serio la cosa. Poteva essere... ecco, senza saper come, ero scivolato in un universo in cui i modi di dire e i luoghi comuni erano divenuti realtà. Qualcosa però non quadrava. Mia moglie spesso diceva che ero un maiale perché mi piaceva guardare le donne nude alla televisione. Eppure quella mattina allo specchio avevo visto la mia solita faccia. Allora?
Mi mossi a disagio sui gradini. Da un angolo buio del sottoscala dove sapevamo esserci animaletti indesiderati, veniva un allegro squittio e della musica. Avevamo sempre detto che i topi facevano festa nel nostro androne. Tornai a spremere le meningi. Forse... forse nella realtà ognuno vede gli altri secondo il proprio modo d'immaginarli... con i difetti visibili... mentre se stesso... no. Ripensandoci allo specchio mi era visto insonnolito, con gli occhi pesti, proprio come mi sentivo dentro. Poi, dopo la doccia, la rasatura e un buon caffè probabilmente m'ero sentito più bello e pimpante del solito. Ero sempre io che creavo la mia immagine.
Mi alzai. Restare lì a gelarmi il sedere sulle scale non avrebbe risolto nulla. Sentii una morsa di gelo sul fondoschiena ma non ci feci caso. Ero curioso di vedere quel mastino del capufficio, la pantera della sua segretaria. Ma più di tutto la signorina Lilly, che era sempre stata per me il simbolo del sesso. Chissà come mi sarebbe apparsa... Scesi gli ultimi gradini con le gambe che quasi non mi reggevano. Mi avvicinai al portone. E con un gesto deciso l'aprii.
I miei occhi si dilatarono e quasi schizzarono via dalle orbite.
Lì fuori c'era un altro mondo, il mondo dei si dice, il mondo dei per me... il mondo dell'ovvio e del simbolismo più sfrenato.
Le strade erano fiumi di metallo lucente e pericoloso, i semafori occhi dispettosi quasi sempre rossi, una nuvoletta piovigginosa pareva aspettarmi all'uscita ed io ero senza ombrello, i vigili erano mefistofelici, con in mano il libretto delle multe scritto col sangue umano, l'aria era nera di smog e persino alcuni colombi avevano la maschera d'ossigeno.
Ma la gente... cielo, la gente!
Alcuni erano normali pedoni, altri tartarughe, lupi, pagliacci e conigli. Ma ne vidi uno... era... Dio che schifo! Lo conoscevo, era quello stron...
Chiusi gli occhi, non potevo andare avanti così.
Li riaprii. E vidi altro... e altro ancora...
Mi sentii girare la testa. Tirai indietro il capo e richiusi il portone. Il mio equilibrio mentale stava vacillando. Come quello fisico. Caddi a terra pesantemente. Gli occhiali infrangibili andarono in frantumi come fossero del più delicato cristallo.
E mi svegliai.
Ero ai piedi del mio letto. Mia moglie dormiva profondamente.
Un sogno... soltanto uno stupidissimo sogno. Sbirciai l'orologio. Erano da poco passate le sette. Respirai a fondo e mi asciugai il sudore che imperlava la fronte. Era incredibile come a volte i sogni sembrano veri, dovevo essere stato proprio un imbecille a crederci. Misi gli occhiali e corsi in bagno. Mi lavai energicamente il viso e presi ad insaponarmi il mento. Che idiota! E poi, non era mia moglie ad avere lontane origini nobiliari, ma io, un mio trisavolo era stato conte o qualcosa del genere.
Il pensiero mi fece sorridere, così mossi il viso sotto la lametta.
Ecco, ci mancava anche questo, mi ero tagliato.
Il braccio rimase a mezz'aria, mentre il cuore mi si arrestava di colpo.
Dal mento colava una goccia di sangue.
Era di un bel blu brillante.
Donato Altomare
I racconti di Donato Altomare sono in vendita presso la libreria Corto Maltese a Molfetta in via M. di Savoia, 106