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Quella drammatica seduta del consiglio comunale con Guglielmo
15 settembre 2016

Mi è stato chiesto di ricordare in una breve comunicazione il mio amico Guglielmo Minervini, probabilmente perché durante la veglia in memoria, tenutasi il giorno della sua morte nella Chiesa della Madonna della Pace, avevo parlato di una drammatica seduta del Consiglio Comunale di Molfetta, svoltasi nell’autunno del 1997, durante la quale la maggioranza che sosteneva la Giunta era stata sul punto di sfaldarsi. In quell’occasione, poiché la durata dei lavori assembleari pareva protrarsi per un tempo notevole, seduto accanto al Sindaco sui banchi della Giunta, iniziai a scambiare con lui una serie di messaggi, scritti, su un blocchetto di foglietti di carta riciclata, in latino maccheronico, quasi per attenuare, con la levità di quella interazione, la sensazione, greve e dolorosa, che la nostra esperienza amministrativa fosse sul punto di concludersi, sotto la spinta di forze politiche centrifughe, delle quali non condividevamo né il pensiero, né la condotta. Iniziai quel colloquio a due con “Longa est res et multarum horarum” ed egli replico “Non multarum horarum sed dierum” . Difatti la seduta si concluse il giorno dopo, quasi all’alba, e, se fosse stata estate, avremmo visto sorgere il sole. La nostra conversazione continuò, come un contrappunto leggero e terapeutico alle accuse e alle recriminazioni, fondamentalmente ingiuste, che ci venivano rivolte e che parevano motivare la fine della nostra avventura di amministratori della città; Guglielmo, in quella circostanza, si attenne ad una sua idea di fondo: la mediazione, e in particolare quella politica, è opera dell’intelligenza dell’uomo e va sempre cercata e perseguita sin quando il compromesso sia moralmente accettabile. Oltre non è possibile andare. Ma vorrei ricordare un altro colloquio con Guglielmo, un’altra interazione vissuta in una congiuntura da me mai più dimenticata. Il 13 maggio del 2001 si tennero le elezioni politiche e il mio amico era candidato per il seggio al Senato nel Collegio Bisceglie Molfetta – Corato, che comprendeva anche i comuni di Giovinazzo, Ruvo di Puglia e Terlizzi. Subì una sconfitta bruciante e, per me, inaspettata. Fui con lui nel triste giro, fatto subito dopo le notizie sull’esito del voto, per ringraziare chi, nelle città del collegio, si era adoperato per la sua elezione. Incontrammo amici, come noi increduli di quel risultato, delusi, tristi, scoraggiati. A tutti Guglielmo manifestò, con quel calore e quell’enfasi, così particolari e affascinanti, così sue, la gratitudine per il cammino percorso insieme, insistendo sulla bellezza della condivisione del patrimonio etico, dell’orizzonte gnoseologico e degli obiettivi politici, e non sulla crudezza dei risultati; spargendo semi di speranza; anticipando nuove sfide esaltanti; ponendo appuntamenti futuri; augurando – ed è sua espressione – a tutti l’irruzione della gioia nelle vicende della vita. Sentii gli applausi al nostro arrivo; vidi volti commossi fino alle lacrime, forti strette di mano, abbracci; e lo stringersi intorno a lui non era soltanto segno tangibile di un affetto sincero; attestava piuttosto una fiducia nel valore dell’uomo, che sarebbe andata oltre quel risultato e che sarebbe rimasta intatta. Mi colpì la pacatezza con cui Guglielmo analizzava la situazione, ricomponeva in una visione unitaria gli elementi dell’insuccesso e ipotizzava futuri scenari e strategie per l’avvenire; senza mai scadere nell’invettiva contro chi gli aveva negato il consenso o contribuito a determinare la negatività del risultato; egli mantenne, anzi, intatta la nobiltà estetica dell’espressione verbale, sicché il comprensibile risentimento non appannò mai la lucidità del suo ragionare. Nei trasferimenti da un Comune all’altro non potei far altro che fargli sentire che ero con lui, che gli ero vicino, anche se – lo rammento bene - non riuscii a dire che poche frasi smozzicate. Ma in quella situazione, che appariva un fallimento, ero comunque con lui, in silenzio ma con lui. Anche al termine di quella seduta del Consiglio Comunale di cui primafacevo menzione, Guglielmo e io avevamo la netta sensazione di un inevitabile fallimento e quasi a certificarne l’ineluttabilità, sull’ultimo foglietto egli mi scrisse “Bonum certamen certavi; cursum consummavi; fidem servavi” (Ho combattuto la buona battaglia; ho terminato la corsa; ho conservato la fede); almeno la fede in quella forma esigente di carità che è la politica, era salva. Così, quando ringraziava tutti quelli che avevano lottato con lui nella primavera del 2001, il fallimento sembrava nuovamente incombere sull’esperienza politica di Guglielmo. Dunque ho privilegiato il ricordo di due sconfitte. Ma il sigillo alla prima è l’incrollabile testimonianza di una fede così profonda che mai sarebbe stata disfatta o soltanto scalfita. “Fidem servavi – mi scrisse - ho mantenuto intatta la mia fede nei valori della politica ed è stata essa a consentirmi di combattere la battaglia in favore degli uomini della mia città e a permettermi di concludere il percorso, di raggiungere, con coerenza e intelligenza, gli obiettivi che era possibile conseguire; in altre parole a farmi vincere”. E la cifra del secondo fallimento è la volontà di dare vigore e rilevanza – quando lo scoramento era massimo e la pena e l’incertezza inquinavano la serenità della riflessione – al caldo sogno delle utopie, ai bollenti spiriti che continuavano ad animare e sostenere il pensiero politico di Guglielmo e che quattro anni dopo l’avrebbero condotto alla vittoria nelle elezioni regionali. Parrebbe banale e retorico dire che Guglielmo ha realizzato, nei suoi progetti e nella sua azione, il passaggio dall’utopia all’eutopia: dal luogo che non c’è alla realtà in cui è bello vivere. Solo che non è banale; è semplicemente vero. Ed è una vittoria, non un fallimento.

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