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Quei lampioni “antichi” che sanno di “moderno” Falso Ottocento e falsa ghisa per illuminare il porto
15 dicembre 2001

“Quando a qualcuno passa per la mente di restituire a un monumento l’aspetto che aveva in un’epoca più o meno passata, si cade nell’utopia di supporre che possa di nuovo essere ciò che già è stato. E va detto an-che, per inciso, che gli antichi avevano di ciò una chiara nozione.” (Fer-nando Távora, 1962) Sarà capitato a tutti quanti, nell’età dell’infanzia, di rompere il proprio giocattolo preferito. Che il gesto sia stato involontario o meno, la reazione sarà stata sicuramente il tentativo di riattaccare insieme i pezzi, di ricom-porre quell’oggetto a noi tanto caro, ed ora inutilizzabile. Un bambino non concepisce l’idea del progresso, dell’andare avanti. Per lui l’oggetto che possiede, qui e ora, è il suo unico oggetto di gioco. Un qualsiasi altro gio-co nuovo non sarà mai quel giocattolo che lui aveva. Fin troppe volte anche gli adulti tendono ad assumere atteggiamenti di questo genere. Venendo a mancare un oggetto, o dovendosene dare di nuovi, cercheranno di ottenerne uno che riporti ad un’epoca d’oro, rispetto ad un presente corrotto e abbruttito. Mi è capitato di riflettere su questa triste abitudine, in questi giorni, pas-seggiando sul porto di Molfetta. Per un oscuro motivo le nostre banchine, che hanno visto imbarcazioni romane, piroscafi ottocenteschi e navi con-tainer del terzo millennio, sono ancora rimaste ancorate, nei loro arredi, all’Ottocento. Un’epoca che viene considerata mitica, un punto di riferi-mento irrinunciabile per chiunque voglia decorare un luogo così frequen-tato. Ed ecco quindi che sul porto di Molfetta hanno visto la luce splendidi lampioni falso ottocenteschi e in autentica falsa ghisa. Sarebbe piacevole ritornare alla riunione in cui fu deciso, da chissà quale esteta funzionario comunale, la scelta di codesti oggetti, spettacolari, d’effetto, ma falsi. Una scelta del genere - che, sia chiaro, non riguarda solo la nostra città, ma è un costume diffuso in molte parti d’Italia - rivela molto di più di quello che può sembrare a prima vista. Quale motivo spinge a rifugiarsi in un oggetto falsamente antico? Come diceva l’architetto Távora, primariamente l’idea che il tempo sia reversi-bile. Se nel Quattrocento gli artisti studiavano l’antico con l’intento di trarre da esso gli insegnamenti necessari a costruire, dipingere, scrivere e scolpire, da uomini del loro tempo, nel Manierismo diventò normale copiare pedis-sequamente i prodotti artistici di un Maestro, antico o recente, perché a questo era conferita un’autorità artistica indubitabile. Questo atteggia-mento si legava al fatto che la fiducia di tali artisti nella loro arte era sca-duta a livelli quasi nulli. La capacità di creare oggetti d’arte senza seguire un modello era considerato impossibile, ed inutile, poiché venivano ri-chieste soprattutto opere “allo stile di...”, piuttosto che opere d’arte con-temporanee. È un atteggiamento che nel tempo si è conservato. Sugli oggetti di arredo si verificano allora due atteggiamenti completamente contrapposti: il ri-fiuto assoluto, e quindi la fuga nel passato, o al contrario, la fiducia cieca nel nuovismo e nella forza della griffe, che porta ad accogliere ovunque gli oggetti più nuovi, senza considerare la loro effettiva funzionalità e ade-guatezza, purché siano all’ultima moda, e “d’autore”, come si usa dire con una bruttissima espressione. È indubbiamente necessario che si impari a fuggire da entrambi. Sono due mostri attraverso cui la navicella degli Uf-fici Tecnici si deve destreggiare come Ulisse tra Scilla e Cariddi. La considerazione della necessaria artisticità di qualsiasi parte dell’arredo urbano non va sottovalutata: è a vivere nella varietà del bello che si impara ad apprezzarlo ed a ri-produrlo, in qualsiasi ambito poi alla fine si lavori. Tante aziende producono arredi urbani nuovi, del 2001, che non sono né oggetti che copiano l’antico, né oggetti che urlano la loro presenza, ma oggetti che assolvono degnamente la loro funzione, che è quella di illumi-nare, di ospitare, di arredare anche un angolo del centro storico più datato, comportandosi da oggetti disegnati da uomini del Duemila per gli uomini del Duemila. Non c’è un motivo oggettivo per cui tali elementi non possa-no trovare ospitalità nelle nostre strade, segnando con la loro presenza lo scorrere del tempo, così come ad un muro di una casa del Seicento si af-fianca un selciato del Trecento. La fiducia nelle capacità artistiche attuali andrebbe risvegliata anche in tanti altri episodi, come la scelta di affidare ad un concorso la realizzazio-ne di opere pubbliche di una certa rilevanza visuale, e mi viene da pensare a cosa è la copertura di piazza Gramsci, il ponte di Levante, e a quello che sarà il cavalcavia di via Ruvo. Non è difficile credere che con lo stesso stanziamento da parte dell’Amministrazione si sarebbero ottenuti oggetti più piacevoli alla vista, non solo aride e ingegneristiche espressioni di una funzione. Nicolò Visaggio
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