Dal nostro inviato
BARI (Consiglio regionale) - Attenersi alla volontà degli enti locali. È questo il dispositivo ratificato dal Consiglio della Regione Puglia sul riordino delle province, approvato con voto congiunto e trasversale tra maggioranza e opposizione (i vari consiglieri sono intervenuti a titolo personale, divergendo anche dalla linea del proprio partito) e inviato al Governo centrale.
Un atto amministrativo tra il pilatismo e la lungimiranza che, impostato sulla relazione iniziale dell’assessore al Federalismo e agli Enti locali, Marida Dentamaro (Pd), è stato elaborato in comunione d’intenti extrapolitici e fuori dai soliti stereotipi destra-sinistra tra i vari capigruppo consiliari, in particolare da Rocco Palese del Pdl, Enzo Decaro del Pd e Michele Losappio di Sel (assente il presidente Nichi Vendola).
In questo modo non solo è stato garantito il rispetto dei deliberati comunali e della volontà delle varie comunità locali (alla Regione stessa pervenuti mozioni e lettere di associazioni e liberi cittadini). Ma si è cercato anche di recuperare la democraticità e la sovranità popolare maldestramente elusi nel provvedimento governativo sul riordino delle province, contestato da tutti i consiglieri intervenuti e anche dalla stessa Dentamaro.
Il D.Lgs. n.95/12 e la Legge n.135/12 sono stati definiti dai consiglieri di maggioranza e opposizione con vari epiteti e aggettivi: «normativa intruglio che scarica la responsabilità su Regioni e Comuni» (Nicola Marmo del Pdl), «riforma peggiore della storia repubblicana» (Palese, che ha definito gli attuali governanti nazionali come «incoscienti»), «legge pasticcio fatta da sprovveduti» (assessore al Bilancio Michele Pellilo del Pd), «legge arlecchino» (Ruggero Mennea del Pd), «legge di disordino» (Aurelio Antonio Gianfreda dell’Idv), e «legge pasticciata» (Francesco Pastore del Gruppo Misto, ma ex Sel). Insomma, un vero e proprio provvedimento anticostituzionale, per quasi tutti i consiglieri regionali intervenuti nel dibattito.
Così, in questo Consiglio regionale non solo è stato delineato in modo completo il quadro della riforma, necessario per la dislocazione politico-territoriale dei vari Comuni, ma si è anche assistito a una straordinaria unanime difesa delle prerogative della “Patria Apulia” (presente anche il presidente della Provincia BAT, Francesco Ventola, oltre a rappresentati di alcuni Comuni pugliesi).
LE PROSPETTIVE
Questo dispositivo sembra delineare la possibilità di una nuova configurazione provinciale che potrebbe addirittura emendare la legge nazionale di riferimento, proprio come
Quindici aveva anticipato lo scorso mercoledì. In pratica, l’accorpamento delle Province di Brindisi e Taranto o la costituzione del Grande Salento, la riduzione della Città metropolitana di Bari ai soli territori circostanti il Comune di Bari e l’eventuale costituzione di una nuova provincia che avvolga non solo la BAT, ma anche i Comuni che non avranno aderito alla Città metropolitana e alla Provincia di Foggia, come Molfetta e Bitonto (che ha espresso l’«
assoluta contrarietà del territorio bitontino alla Città metropolitana»).
In quest’ultimo caso, è problematica la posizione di Bitonto che, interclusa da altri Comuni e interna alla Città Metropolitana, non sarebbe contigua al territorio di una possibile nuova provincia che, ad oggi, non è una realtà così fantomatica come si sarebbe potuto pensare all’inizio di ottobre.
UNA NUOVA PROVINCIA?
Significativo è un passaggio nella relazione della Dentamaro: «i dieci Comuni appartenenti alla Provincia BAT hanno trasmesso atti dei rispettivi consigli tendenti a provocare “al fine di non aderire alla Provincia di Foggia” una iniziativa governativa, nell’ambito del procedimento fissato dall’art.18 comma 4, correttiva dello stesso D.Lgs. n.95/12 che consenta la costituzione di una nuova Provincia, comprendente i territori della Provincia BAT e quelli dei Comuni eventualmente non aderenti alla costituenda Città metropolitana di Bari. A tal fine i Consigli comunali hanno dato mandato ai rispettivi sindaci di attivarsi per la definizione di una nuova circoscrizione territoriale».
De facto, è una «ipotesi non praticabile». Eppure la relazione lascia aperto un pertugio perché l’impossibilità non dipende dall’assenza di uno dei requisiti demo-territoriali (l’estensione di questa nuova provincia è di appena 1.600km2 rispetto i 2.500km2 fissati per legge), ma «perché l’iniziativa non ha ancora conseguito il risultato auspicato negli atti consiliari, ossia la definizione di una nuova circoscrizione provinciale attraverso la condivisione di tutti i dieci Comuni della BAT e l’adesione di altri Comuni, per ottenere la quale era stato conferito mandato ai sindaci di attivarsi».
In sostanza, nel caso in cui si delineassero i contorni di questa nuova provincia e di fronte alla volontà popolare, il Governo centrale potrebbe anche emanare un provvedimento correttivo: sono in atto emendamenti e deroghe alla legge per le altre Regioni e Città metropolitane e, come ha ricordato il consigliere Domenico Lanzilotta (Pdl), nella lettera della BCE tra le città metropolitane da istituire non si nomina Bari perché non soggetta a un fenomeno di metropolizzazione, bensì di semplice regionalizzazione.
Non bisogna nemmeno dimenticare che in alcuni interventi (Marmo e Antonio Mattarelli di Sel) si è delineata la possibilità di ristrutturare l’organizzazione provinciale secondo i vecchi giustizierati federiciani sopravvissuti per ben sette secoli (Capitanata, Terra di Bari e Terra d’Otranto).
GOVERNO SPALLE AL MURO
Il dispositivo consiliare inchioda il Governo centrale: perché, nel caso in cui non dovesse considerare le decisioni dei Comuni e la volontà delle comunità locali, potrebbe essere tacciato di antidemocraticismo e, perfino, di dittatura. Tra l’altro, la volontà di commissariare le province pugliesi per attuare ex abrupto la riforma è stata letta da alcuni consiglieri come una minaccia e un vero e proprio provvedimento fascistoide. Se la riforma dovesse essere applicata, potrebbe anche scatenarsi una rivolta comunale (qualche consigliere ha parlato di «comunità partigiane» senza mezzi termini).
Non bisogna dimenticare che per l’istituzione della Città metropolitana il D.Lgs. n.95 e la Legge n.135 derogano ai principi di democraticità sanciti dalla Legge n.42/09 («Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione») che fissava le modalità per la costituzione delle Città metropolitane in attesa «della disciplina ordinaria riguardante le funzioni fondamentali, gli organi e il sistema elettorale delle città metropolitane che sarà determinata con apposita legge».
La proposta di costituzione sarebbe dovuta spettare al Comune capoluogo congiuntamente alla Provincia, al Comune capoluogo congiuntamente ad almeno il 20% dei Comuni della Provincia interessata che rappresentino, unitamente al Comune capoluogo, almeno il 60% della popolazione, infine alla Provincia, congiuntamente ad almeno il 20% dei Comuni della Provincia medesima che rappresentino almeno il 60% della popolazione. Nessuna consultazione popolare: la legge ha troncato le gambe a ogni forma di partecipazione democratica.
LA CITTA’ METROPOLITANA
Della Città metropolitana si è discusso molto poco e, all’occasione, non positivamente. Da un lato, i consiglieri hanno evidenziato la difficoltà di pianificazione, gestione e controllo per la sua pluriformità socio-territoriale (Saverio Congedo del Pdl), dall’altro l’impossibilità di deliberare l’adesione a un ente erigendo come semplice atto di fede, se privo di uno statuto di partenza (Decaro, secondo cui «la Città metropolitana ha un senso solo se il territorio è omogeneo e non frazionato in realtà differenti»).
Per di più, nella relazione iniziale dell'assessore Dentamaro si ribadisce la negatività di usare criteri solo quantitativi nel riordino delle province, senza considerare gli aspetti storici, psicologici, tradizionali, culturali, economici e identitari (come ad esempio per la BAT o per la Provincia di Brindisi smembrata tra Bari e Lecce). Si tratta, innanzitutto, di un problema di «deficit di legittimazione democratica»: l’assenza di uno statuto o di un sistema istituzionale di riferimento potrebbe anche innescare il centralismo barese (decisioni riguardanti politiche pubbliche rilevanti per la popolazione dell’intera area potrebbero essere assunte solo dal Comune centrale del capoluogo).
A questo si aggiunge un problema di «efficace allocazione di costi e benefici»: il Comune centrale paga i costi di servizi pubblici di cui usufruiscono in parte significativa cittadini di altri Comuni che rappresentano un peso sul bilancio comunale pur non contribuendovi attraverso l’imposizione fiscale e tariffaria.
Allo stato attuale, sembra che il Governo centrale abbia già in saccoccia una decisione (probabilmente un provvedimento correttivo). Bisognerà solo attendere.
© Riproduzione riservata