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Presentato a Molfetta “Emigrati politici pugliesi - Sovversivi e fuoriusciti del Novecento”
17 maggio 2010

MOLFETTA - Si può davvero considerare l’emigrazione come “la storia di una sconfitta”? Così sosteneva Giovanni De Luna, eppure, la nuova ricerca storiografica di Vito Antonio Leuzzi, Giulio EspositoMariolina Pansini sembra dare conferma del contrario.

Il loro nuovo saggio, "Emigrati politici pugliesi - Sovversivi e fuoriusciti del Novecento", è stato presentato nella libreria “Il Ghigno” di Molfetta.
L’incontro (nella foto, da sinistra: Mariolina Pansini, Guglielmo Minervini e Vito Antonio Leuzzi) si è aperto con un intervento di Guglielmo Minervini, che è stato invitato per la sua nota sensibilità, sia nel passato come sindaco sia attualmente come assessore regionale, nei confronti degli stimoli culturali. Egli ha sottolineato l’importanza di questo libro nella restituzione al territorio della propria identità storica nella creazione di un più forte senso di appartenenza e di orgoglio. Insomma, un fondamentale “tassello della nostra memoria collettiva”, che metta tra l’altro in collegamento il Mezzogiorno con la storia d’Italia e faccia capire l’erroneità della convinzione “che abbiamo potuto vivere l’antifascismo da semplici spettatori”.
Sono storie di eroismo, di lotta, di impegno,quelle raccontate dagli storici anche attraverso interessanti documenti, e possono offrirci un esempio molto significativo, soprattutto nella società individualistica ed egoista dei nostri tempi. Si tratta infatti di biografie di uomini partiti a volte anche per motivi economici, ma che una volta lontani non si sono affatto disinteressati del loro paese d’ origine anzi hanno acquistato un senso civico sempre maggiore e collaborato in modo attivo. E’ il caso, ad esempio, di Elvira Castello, che si è allontanò con suo marito dal contesto delle Murge per trasferirsi a New York, dove aprì un libreria-casa editrice e da qui condusse numerose campagne antifasciste inviando opuscoli ed altro materiale a Locorotondo e cercando in più modi di convincere a “non mandare i ragazzi al macello”. La vicenda è riuscita addirittura a interessare un regista anglo-americano, il quale sta mettendo su uno spettacolo teatrale a riguardo.
Una vera e propria colonia di antifascisti salveminiani si era invece creata ad Hoboken, in New Jersey. Si tratta di una colonia prettamente molfettese, dove si perpetuano, anche al giorno d’oggi, tradizioni come quella della processione della Madonna dei Martiri. Questa ingente presenza molfettese aveva quindi spinto il fascio di polizia della nostra città a creare un’altra sede proprio ad Hoboken. Ed è dunque un resoconto indirizzato al fascio Molfettese a farci pervenire la notizia di un pranzo tenutosi in questa località statunitense in onore di Salvemini, che sembrerebbe aver contato ben 1.500 presenze. Tra queste c’era molto probabilmente un certo Giuseppe Ranieri, la cui storia merita di essere menzionata in quanto piuttosto emblematica e a lieto fine: arrivato ad Hoboken, era riuscito a farsi raggiungere dalla moglie spedendole il passaporto. A questo punto, però, il fascio di Hoboken scrisse a quello molfettese, ammonendolo di far attenzione a non far uscire dal paese anche i figli, rimasti presso dei parenti. Tuttavia Ranieri riuscì, clandestinamente, a raggiungere Molfetta passando dalla Francia e a recuperare i figli. Più che soddisfatto dell’impresa, scrisse a questo punto una lettera canzonatoria al podestà molfettese, in cui affermava di essere riuscito a scappare passando proprio sotto la casa di quest’ultimo, dandogli del lei (in quel momento storico era vietato in quanto era d’obbligo il “voi”).
Più tragica è invece la più nota vicenda di Sallustio: dopo un primo periodo ad Hoboken (lo vediamo certamente partecipe al pranzo salveminiano) in cui subisce due arresti, l’uno perché coinvolto in un accoltellamento e l’altro per manifestazioni antimilitaristiche espatria in Unione Sovietica. Una intervista fa già emergere una nascosta insofferenza al regime, per cui verrà poi fucilato con l’accusa di aver trasmesso informazioni ai servizi segreti italiani. Un’accusa, questa, evidentemente pretestuosa in quanto ammetterà di aver trasmesso informazioni sì, ma in merito allo stato d’animo degli operai e quindi non rivelando alcuna informazione segreta.
Simile ma con lieto fine la storia del giovinazzese Lorusso, che riesce e espatriare dalla Russia, nascondendo l’insofferenza al regime dietro una salute cagionevole. Esporrà le sue ragioni palesemente false, quasi con obiettivo canzonatorio, indossando un cappottino leggero in pieno inverno.
Non bisogna comunque dimenticare che al di là delle lotte politiche, che potevano avere esiti positivi o negativi, quella dell’emigrazione non restava certo un’esperienza facile: oltre al problema del costo altissimo del viaggio, subentrava poi il disagio della lingua sconosciuta, dell’impatto di una società diversa, più individualistica in cui comunque i nostri concittadini hanno saputo resistere ancorati ai loro valori, anche quando finivano a fare lavori più umili come quello dallo scaricatore di porto pur essendo professionisti.
Il lavoro degli storici per la ricostruzione di questo pezzo di storia, troppo spesso trascurato, ha contato su una collaborazione molto ampia e sull’apertura di archivi che non è stato possibile consultare fino a non molto tempo fa, scontrandosi, tra l’altro, tra la difficoltà di non violare la privacy (che è ancora vigente anche su dati risalenti al primo Novecento) e quella dell’assenza di centri di documentazione pugliesi.
Gli autori auspicano ora una collaborazione delle scuole, in modo che questa pubblicazione non resti autoreferenziale, ma possa avere utili ripercussioni sulla formazione sociale e civile dei futuri votanti.
 
© Riproduzione riservata
Autore: Giulia Maggio
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