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Omicidio Bufi, il tempo è alleato dell'assassino Colpo di scena: non sufficienti le indagini sulle macchie di sangue
15 marzo 2002

Dieci anni. Tre inchieste. Un'indagine dei carabinieri del Ris e un'inchiesta bis a carico degli inquirenti. Un indagato e centinaia di testimonianze raccolte. E' un mistero senza fine l'omicidio di Annamaria Bufi (nella foto), la ragazza di 23 anni uccisa la sera del 3 febbraio 1992 e scaricata sul selciato della SS16 bis. La svolta non c'è stata neppure col Luminol test, l'esame che serve ad accertare la presenza di tracce ematiche su oggetti e superfici. Nessuna certezza, né alcuna conferma è arrivata dal test effettuato dal Ris di Roma su alcune aree della Renault 21 Nevada di Domenico Marino Bindi, ex insegnante di educazione fisica indagato dell'omicidio nel corso dell'ultima inchiesta ancora in corso, condotta dal Pm Bretone. Quel test, nell'auto di Bindi, è risultato positivo in 8 aree esaminate nell'abitacolo e nel vano bagagli. 8 aree si sono "illuminate" con la tipica reazione a chemio-luminescenza prodotta dagli spray del Luminol. Ma in sede d'incidente probatorio presso il Tribunale di Trani, il maresciallo Vespi, autore della perizia, ha chiaramente parlato di "false positività", determinate probabilmente (quella del maresciallo è un' "ipotesi") dalla contaminazione con ioni metallici. "E' un vero dietro front", ha commentato Franco Bufi, il padre della ragazza uccisa. "Apprendo a questo punto che il Luminol, contrariamente a quello che ci avevano fatto intendere, è un test che serve davvero a poco. Mi ero illuso di essere a un passo dalla verità e ora questo passo indietro mi lascia abbastanza perplesso". Il maresciallo, durante l'incidente probatorio, ha dichiarato inoltre di aver successivamente sottoposto le aree risultate positive con Luminol test, a un ulteriore esame spettrofotometrico (raggi UV). Un'indagine che non ha dato conferme sulla presenza di sangue, pur messa in luce dal Luminol. Ancora, le stesse aree dell'automobile di Bindi, sono state oggetto di un "esame genetico", nell'ipotesi che quei siti già indagati al Luminol fossero stati contaminati da altri tipi di liquidi biologici (sperma o saliva). Dall'esame genetico è emerso, in una sola area, un profilo genetico maschile, mentre "sulle altre tracce - ha dichiarato Vespi davanti al Gup Maria Teresa Giancaspro - possiamo dire che non c'era materiale genetico". "Un'affermazione, quella del maresciallo - ha puntualizzato il padre di Annamaria - fin troppo sicura, se confrontata con le dichiarazioni da lui stesso fornite in sede di incidente probatorio, secondo cui l'esame genetico "ha fornito segnali che comunque possono essere considerati non utili" e con la relazione della perizia nella quale sempre il maresciallo Vespi parla di "esiti non scientificamente accettabili". Significa che tutto chiaro proprio non è. O no?". Infatti, a seguito dell'esame dei frammenti di Dna estratti dalle aree risultate positive al Luminol, se "lo studio del Dna condotto su 13 loci genici - si legge nella perizia - ha portato a individuare sul reperto F (porzione di guarnizione) un profilo genetico ascrivibile a soggetto maschile" e dunque incompatibile con il profilo di Annamaria, tuttavia, "non è possibile esprimersi in merito alla presenza di materiale organico umano sulle rimanenti porzioni di tappezzeria dell'abitacolo e del relativo vano bagagli". C'è poi il fattore tempo. E quello della "diluizione estrema delle tracce" (come da incidente probatorio), in un'automobile "rimasta in uso per diversi anni" e "fortemente esposta a polveri e contaminazioni". Dalla data dell'omicidio, insomma, sono trascorsi troppi anni: un determinante "fattore di complicazione", secondo le indagini del Racis. Da quella maledetta notte ci separano ormai 10 lunghissimi anni. Chi ha ucciso Annamaria Bufi sa purtroppo oggi di poter contare su un alleato forte. E' il tempo, subdolo e infido. Difficile sconfiggerlo, impossibile neutralizzarlo. Inchiesta sugli inquirenti Continua intanto l'"inchiesta bis" a Potenza, a carico dei magistrati inquirenti. E procedono a ritmo serrato le indagini del Pm Bretone: nei giorni scorsi, secondo indiscrezioni, sono anche stati acquisiti degli atti presso la Caserma dei Carabinieri di Molfetta. Non fa commenti l'avvocato difensore della famiglia Bufi, Bepi Maralfa. "Non rilascio dichiarazioni fuori dalle sedi istituzionali", si è limitato a dire. Il padre di Annamaria ci mostra anche una lettera inviatagli dal segretariato della Presidenza della Repubblica. Dal Quirinale, il Presidente ha fatto sapere che, pur non potendo entrare naturalmente nel merito delle indagini, solleciterà "determinazioni collegiali" a carico dei magistrati, in qualità di Presidente del Csm. Si continua a fare chiarezza, intanto, sulle "false piste" intraprese nel corso delle passate inchieste. Di scena, questa volta, un orecchino rinvenuto dai Carabinieri in un'Opel Corsa ed erroneamente attribuito ad Annamaria Bufi. Nel '92, subito dopo l'omicidio, fu una cugina di Annamaria a indicare quell'orecchino come appartenente alla vittima. Ma oggi numerose testimonianze raccolte nell'ambito delle indagini difensive, sembrano escludere con larghissimi margini di certezza che quel monile potesse appartenere ad Annamaria. E' un'altra ragazza la legittima proprietaria di quell'orecchino: lo dichiarò anche nel 1992 quando, come lei stessa ha raccontato, fu ascoltata dai carabinieri. Una circostanza, però, della quale non è rimasta traccia in alcun verbale. Del resto la stessa cugina di Annamaria, oggi dichiara di non aver riconosciuto all'epoca quell'orecchino, ma tutt'al più di aver riferito che tipo e caratteristiche di quel monile potessero essere compatibili con il consueto abbigliamento di Annamaria. Tutte circostanze e dati sui quali ora dovranno indagare le autorità competenti. Per chiudere definitivamente la partita con vecchi falsi indizi, e fare breccia finalmente nella verità di un omicidio che neppure 10 lunghi anni potranno cancellare. Tiziana Ragno
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