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Non ci posso credere..., in memoria di Giovanni de Gennaro
15 giugno 2009

Quell’ultraottantenne scattante, lesto, pronto nella decisione, deciso nell’azione, dall’intelletto lucido, vitale di biocarica e di fede nell’intelligenza logica, un signum immortalitatis, non è più una mirabile unità fisio- neuro-psichica. Del professore di liceo molti hanno ricordato la disposizione a comprendere, animare e valorizzare gli studenti. Rammento in un drink con i collaboratori dell’Università Popolare il suo commosso ricordo d’un alunno del 1961: Mario Gambardella, atleta (ve lo rammento appunto atletico, sportivo, un’incarnazione fedele delle statue greche) ed allievo leale, intelligentemente e dignitosamente studioso, poi valente professionista in Brasile, dove morì ante diem. D’un rapporto nato nella scuola, ma sviluppato in seguito in modo molteplice sì, da costituire una guida costante nella sua vita pubblica, parlò nella celebrazione a sorpresa (il celebrando ne sarebbe stato schivo) dei “mille mesi” di vita di Giovanni de Gennaro, Tommaso Minervini, studente di quarta liceale scientifica nel 1972, quando fu scelto con altri tre per un convegno a Selva di Fasano (ne fui accompagnatore) dal preside Blasucci. Di questo era allora vice De Gennaro, docente nel classico, ma che “seguì” Tommaso, stimandolo, fin nella sua carriera pubblica di dirigente aziendale (AMS) e sindaco ed in questa funzione l’onorò, invitandolo nell’Università Popolare a parlare del governo della nostra città. Era la prima volta, perché un altro sindaco, Enzo de Cosmo, che aveva parlato nei tardi anni 80, aveva trattato un tema professionale (i tre massimi sistemi dell’economia mondiale). In quel modo De Gennaro avvicinava il “senatus” (nella persona alquanto giovane di Tommaso) al populus melphictensis, per farne, come nel –que epitetico, l’unità romanamente scritta nello stemma cittadino (SPQM). Non voglio rammentare i noti impegni culturali nell’Istituto di storia risorgimentale e nelle “conferenze”, a cui sempre era chiamato come “asso nella manica” (e sigillum auctoritatis dell’incontro) della cultura storica, politica, sociale. Mi preme rilevare la fede incrollabile nella cultura, nella sua funzione incivilente ed educativa. Tra difficoltà imprese a dirigere (ma volente cooperare con soci ed enti) un sodalizio, l’Università Popolare, di lunga storia, estenuato da situazioni oggettivamente avverse, per destinarlo nella sua mente ad essere tedoforo del sapere; credendo in esso, perché credeva nella “missione” civile della cultura (come credeva in sé, nella propria lunga, salda formazione, fondata su principi stabili). E ne celebrò il centenario con una pubblicazione non per ozioso rito, ma per narrare alla cittadinanza, quella che desidera sapere, una fondazione, la quale attinge dalla forza dell’idea, che porta in sé, valore ed energia, per tornare nel tempo fin al secolo ed oltre. E con un annuario volle mostrare che il sapere coltivabile in un centro culturale non è serioso, tanto meno dimesso e mesto, illustrando un anno di lavoro “accademico” e sociale, esemplativo della molteplicità della sua funzione: informativa, formativa, qual di cattedra non cattedratica da cui tra altri di diversa provenienza molti molfettesi residenti e sparsi nel mondo (una sua idea costante: onorare i molfettesi affermatisi fuori e lontano) ai molfettesi alloquissero nei rispettivi ambiti culturali e professionali, diplomatici, militari, confessionali (social-confessionali, direi, come il dibattito sulla funzione sociale degli oratorii - mi si permetta per chiarezza questo plurale antiquato); ricreativa, socializzante anche nella forma del complesso piacere della mensa: gioie del palato, della gaia compagnia, all’uopo dell’ascolto di poesie lette, come un tempo le orationes nei refettori badiali, in comedendo; inoltre anche vivendo il fascino dell’esplorazione del territorio, dei suoi luoghi storici e turistici. Un modello, il suo, di recuperato integro umanesimo: conoscere, coltivare la mente, elevare lo “spirito” ed assaporare la vita. Le parole, che sintetizzavano lo sforzo collettivo d’operare per gli altri attraverso un’università popolare, erano “educazione permanente”. Un impegno che avvicinava lui ad altri “cultori”, per esempio il prof. Damiano D’Elia, e avvicinava questi a lui in un reciproco rispetto e riconoscimento di competenze nei ripetuti inviti a parlare. Una formula, questa, che viene dal passato fecondo, vissuto ed “agito” tra i primi da lui, il passato in cui germogliava, fioriva e fruttava una cultura democratica, immanentistica, laica, libertaria, diciamo pure la definizione convenzionale: “di sinistra”, anche se associava personalità d’un centro progressivo. Che speranza aveva De Gennaro di fecondare questi tempi? Egli ne era persuaso. Sempre da un passato di fermento viene la memoria d’una definizione monitoria, “analfabetismo di ritorno”, usata per stigmatizzare la tendenza degli ex-studenti medi ed universitari a chiudere per sempre i libri di formazione della mente e coltura della personalità, una volta conseguiti il titolo e iniziata l’opera. Professionisti senz’anima; ”tecnici del mestiere” o solo paranoici della carriera e del guadagno più largo. Ma quell’analfabetismo di ritorno può essere un lusso di fronte all’attuale (e che minaccia di divenire generale) analfabetismo radicale e permanente, perché credo che ogni studente, che si appassioni al “Grande Fratello”, sia culturalmente analfabeta. Saprà (se saprà) anche recitare bene le formule secche della sua specialità, però non solo sarà un professionista (nel migliore dei casi) senz’anima, ma è già uno studente senz’anima. Io sono scettico sulla possibilità di fecondare questo tristo tempo ed incline con sdegno anacoretico ad abiurare dall’umanità connazionale (e “globale”?), ma per Giovanni valeva la similitudine dei semi caduti su vasti sassaie e sterpeti e dei semi accolti e covati dalla sia pur poca humus feconda. E, minime exterritus, continuava a seminare. Non per altro amava chiamare seminari gl’incontri culturali con il pubblico e i corsi realizzati all’interno dell‘Università Popolare, tra cui uno di filosofia curato da lui stesso.

Autore: Antonio Balsamo
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