Si accendono i motori, via gli ormeggi, un ultimo controllo e la barca comincia a staccarsi dalla banchina. Si lascia alle spalle l’odore della terra e si muove nell’odore fresco del mare di notte. Man mano che si allontana si fanno più piccine le luci del paese: da lontano sembra una vecchia stampa. Poi tutto scompare nella notte e i cinque uomini restano soli. E’ una serata tranquilla. Ma di pesce se ne vede poco. La barca si spinge più al largo nelle acque internazionali, viene individuata una zona di pesca e ci si prepara a calare le reti. Poco più in là c’è il confine con l’ex Jugoslavia, un limite che non si vede: è solo il radar a indicarlo. Ecco, proprio sullo schermo luminoso del radar appare un puntino. Nessuno lo nota fino a quando non diventa più grande. Allora un senso di angoscia misto a paura si impadronisce dei pescatori. E’ una sensazione che conoscono bene: l’hanno provata altre volte. E, insieme con la paura, cresce la rabbia. La motovedetta jugoslava lancia i primi razzi di colore rosso: è l’avvertimento, l’intimazione a fermarsi. Il capitano tenta una manovra disperata per invertire la rotta. Crepitano subito le mitragliatrici. Ora la paura ha il sopravvento: è meglio fermarsi. La motovedetta si accosta al peschereccio, due militari salgono a bordo con le armi spianate: chiedono del comandante e chiudono gli altri uomini nella cabina. Interrogano sommariamente il capitano, gli sequestrano i documenti e gli ordinano di portare la barca fino al porto slavo. Il peschereccio, con due militari armati a bordo, segue la motovedetta della polizia. L’azione di guerra è terminata. Proprio di un’azione di guerra si tratta. Non avviene, però, in un film, ma spesso, e sempre con lo stesso «copione», nella realtà di uomini che affrontano un lavoro difficile e rischioso, dove qualche volta ci può scappare il morto. Ad uccidere non è solo il mare. Se poi si aggiunge la guerra vera, quella interetnica che dilania l’ex Jugoslavia, cresce il rischio di rimetterci la vita, come è accaduto qualche mese fa al marinaio di Molfetta Antonio Gentile, ucciso da una raffica di mitra di una motovedetta serbo-montenegrina. Questa è oggi la vita del marinaio: inseguire i pesci che non sanno leggere la carte nautiche e si spostano da un confine all’altro, creando seri problemi alle imbarcazioni italiane. Non è possibile stare sempre a guardare la bussola o il radar per poche miglia, altrimenti si finisce per dare la caccia ai... sommergibili anziché ai pesci. «Oggi pescare come fare il gioco del gatto col topo – dice un giovane marinaio —. Quei maledetti pesci stanno tutti dall’altra parte. Se vogliamo lavorare dobbiamo sconfinare cercando di rientrare subito nelle acque internazionali o di scappare prima che arrivi la motovedetta. Ma la guardia costiera ora spara: le pallottole arrivano prima del loro motoscafo». Avete paura? «No, ma andare in mare è sempre un sacrificio», risponde Vito Mezzina, 30 anni, che col fratello Domenico, 23 anni, possiede una barca. Eppure oggi i pescherecci sono superattrezzati. Si dorme in comode cuccette, con il riscaldamento d’inverno e l’aria condizionata d’estate, si mangia meglio che al ristorante. Non mancano tv a colori, stereo e compact disk. Insomma, sono piccole navi da crociera. I rischi - slavi permettendo - sono ridotti quasi a zero perché gli strumenti di bordo offrono un margine di sicurezza elevatissimo. «E’ lo strumento che li chiama», dice un vecchio pescatore, un mucchietto di pelle e ossa consumate dal mare, rattrappite attorno a due grandi lenti da presbite che gli fanno sembrare enormi quegli occhi color del mare, velati come due laghi appannati da un filo di nebbia. «Noi andavamo a senso, sentivamo il vento e il mare. Ora hanno anche il pilota automatico. Ai miei tempi bisognava saper reggere il timone: la sorte di tutti era affidata al timoniere». Che contrasto con i giovani pescatori di oggi, con telefonino e valigetta pronti a partire come per un viaggio di affari! Non li distinguereste da un manager se non fosse per quell’andatura un po’ ciondolante, che ricorda quella degli ubriachi, dovuta all’abitudine di camminare a bordo della barca in mezzo al mare. Hanno la settimana corta e le ferie, non restano più lontani dalle famiglie per mesi, guadagnano molto bene, sicuramente tre volte più di un impiegato, ma amano il mare. «E’ meglio stare a terra, è un’altra cosa – dice Vito Mezzina – facciamo questo lavoro perché lo facevano i nostri genitori e i nostri nonni. Ma non porterò mai mio figlio con me in mare». E’ tutta nell’amore per il mare la differenza con i vecchi pescatori. Quel-li che lo amano – come scrive Hemingway – ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna. I giovani ne parlano, invece, al maschile, «come di un rivale, o di un luogo o perfino di un nemico... Ma il vecchio lo pensava sempre al femminile e come qualcosa che concedeva o rifiutava grandi favori e se faceva cose strane o malvage era perché non poteva evitarle». E ne serviva tanto di amore un tempo per affrontare ogni giorno l’avventura della pesca. «Ogni improvvisazione poteva costare cara – racconta Ignazio Salvemini, 80 anni, magnificamente portati: ne dimostra al massimo 60, questo vecchio pescatore di Molfetta asciutto e dritto come un albero maestro –. Tutta la cultura marinara era frutto di esperienze degli antenati, tramandate di padre in figlio. Allora non c’erano bollettini meteorologici, si andava col vento, perché le barche erano a vela, le antiche bilancelle dalla vela latina». Quando il vento era buono, il capitano spediva il mozzo, casa per casa, a reclutare l’equipaggio. Il ragazzo partiva intorno alle 22.30, doveva fare in fretta: a mezzanotte si doveva salpare. Il capitano faceva la provvista del pane (allora non c’era tutto il ben di Dio che c’è oggi). Ogni pescatore si portava da casa una bottiglia di vino. E l’acqua? Niente minerale. Si raccoglieva a bordo nel «caratidde», un serbatoio in legno e doveva servire per tutto il viaggio. Poi la partenza in direzione del Gargano, per sfruttare il tempo favorevole. Salvemini ha cominciato da ragazzo ad andare per mare. Un giorno il padre lo buttò giù dal letto: adesso tocca a te, gli disse, è ora che cominci. Tempi di remi e di vela. Con le mani di bambino subito rovinate dallo scorrere nelle palme della cima gonfia di acqua salata, bruciate dal sole e fatte grandi dall’attrito del legno di castagno dei remi. E cosi l’avventura è continuata per 52 anni. «Il mare non è stato mai amico dell’ uomo – scriveva Conrad –. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza». E come era irrequieto il capitano: doveva annusare il tempo, servendosi di tutti i segnali possibili per indovinare. Quando il «sole si buttava nel sacco» (scompariva dietro le nuvole), ad esempio, significava acqua o vento in arrivo. Allora non si poteva tornare a casa, si dirigeva verso il porto più vicino, in attesa della bonaccia per ripartire. E il pescato veniva venduto, anzi svenduto sul posto, perché i commercianti speculavano sulle loro difficoltà, imponendo il prezzo. Non c’erano frigoriferi: o accettavi o buttavi via tutto. Menù unico a bordo: pesce a colazione, pesce a pranzo e pesce a cena. Ma il migliore pescato, quello era riservato alla vendita. Per i pescatori c’era solo quello di scarto. E per la notte un unico locale sottocoperta accoglieva l’intero equipaggio. Un panno per terra, distesi uno accanto all’altro, otto persone su una barca di 12 metri, coperti alla men peggio con una giacca o altro. La notte passava così in compagnia del pesce fino all’alba. L’ora del marinaio, come chiamano questa luce che non è ancora luce, un rosa tenero che rimbalza dall’acqua, quando per tutti comincia l’ultimo sogno, che precede il risveglio, per la gente di mare questo sogno è proibito: è il momento di salpare le reti e affrettarsi a rientrare. «Eppure con quelle barchette – prosegue Salvemini sull’onda del ricordi: i pescatori hanno sempre voglia di raccontare, sarà perché restano troppo tempo da soli in mare – si arrivava anche fino ad Alessandria d’Egitto (la prima paranza che ha attraversato il Canale di Suez era di Molfetta) e restavamo lontani anche un anno da casa. Il ritorno era sempre un’avventura. Una volta – eravamo nel ’29 – il vento cambiò improvvisamente e scoppiò un temporale con raffiche ad oltre 100 km all’ora. Fu un’impresa salvare la nave. Piangevamo. Eravamo disperati. Qualcuno pregava. Un nostro compagno anziano (allora non c’era pensione e si navigava fino a 70 anni) morì di paura. Non potevamo chiedere soccorso: all’epoca non c’era la radio. Poi, improvvisamente, intravedemmo un’insenatura, non segnata sulle carte. Ci infilammo, sfiorando gli scogli. Alla fine eravamo al riparo. Quando il tempo migliorò scendemmo a terra per seppellire il nostro sfortunato compagno. Al momento di ripartire un nuovo problema: le ancore non venivano via, si erano incagliate nel fondo. Scene di disperazione. Eravamo destinati a non tornare a casa, a restare su quell’isolotto disabitato, come tanti Robinson. Poi il Cielo ci venne incontro. Una grossa nave passeggeri sfiorò l’isola smuovendo le acque con i suoi potenti motori. Miracolosamente gli ormeggi si disincagliarono. Era la salvezza». La storia del pescatore finisce qui. L’uomo resta muto sulla banchina, lo sguardo perduto nell’orizzonte ad ascoltare la voce del mare, come nei «Malavoglia » di Verga: «Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto in mezzo ai faraglioni, perché il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare». La Gazzetta del Mezzogiorno – pagine della cultura - 15.10.1993
Autore: Felice de Sanctis