MOLFETTA - Attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Italia e perire dopo pochi anni per una malattia curabile, tra le braccia dell’amico coinquilino, senza l’aiuto di alcuno.
È una storia drammatica e assurda quella che riguarda Souba Balde, il giovane rifugiato molfettese; una storia che nasconde una tragedia evitabile che nel tempo si è trasformata, per una serie di incastri ed eventi, in qualcosa che all’apparenza sembra ineluttabile.
Partito dal Senegal così come tantissimi suoi connazionali via mare, Souba era stato trasferito e accolto per un breve periodo presso un Cas di Bisceglie, chiuso nel 2019 per fine attività, dove inizia le cure per la tubercolosi, una malattia infettiva e contagiosa che richiede una lunga e costante terapia che può durare dai 6 ai 18-24 mesi.
Qui, dopo che viene dichiarata e accertata la minore età e grazie alla sinergia con i servizi sociali locali, viene trasferito in una comunità di minori di Mofetta rimanendoci fino ad agosto di quest’anno.
Nel frattempo Souba va a scuola, studia, si prende col tempo anche il patentino come saldatore.
Il ragazzo cresce, entra a far parte di quella comunità senegalese che a Molfetta conta poco più di 30 persone, si integra lentamente in città: inizia così l’idea e desiderio di essere autonomo, trovare un lavoro e aiutare economicamente così la famiglia rimasta nella sua terra d’origine.
Per questo motivo, terminato il percorso nella comunità, inizia la ricerca di una casa, che troverà grazie alla disponibilità di Salif Kande, ragazzo di 31 anni giunto in Italia nel 2011.
Da questo momento in poi i fatti lasciano spazio alla notizia di cronaca e alle dichiarazioni di Salif rilasciate a Il Quotidiano Italiano di Bari.
Nell’intervista, Salif racconta che Souba gli aveva mentito rispetto alla malattia, perchè dichiaratosi negativo e che la tragedia, assieme a tutti i suoi dettagli, è avvenuta sabato scorso davanti agli occhi di un amico presente e suoi, tra le proprie braccia; lo stesso giorno in cui era uscito di casa per inviare alcuni soldi alla mamma.
Esistono ancora molti buchi di trama in questa vicenda dove la Magistratura ha avviato le sue indagini, tante le domande che ad oggi non hanno risposta, tra le quali:
- Souba stava proseguendo la sua cura per la tubercolosi durante il periodo in comunità? Se si, perchè l’ha interrotta?
- Perchè Souba ha dichiarato il falso a Salif rispetto al suo stato di salute, mettendolo a rischio contagio dal momento che la tbc è trasmissibile per via aerea attraverso saliva, starnuto o semplice colpo di tosse?
- Per quale motivo i vicini di casa non sono intervenuti alle grida d’aiuto di Salif?
- Souba sarebbe ancora vivo se il 118 avesse risposto in tempo?
Eppure niente di tutto questo, se e quando si conoscerà, renderà giustizia al giovane rifugiato di Molfetta, nulla riporterà in vita il ragazzo così come nulla cancellerà gli attimi di paura vissuti da Salif tra il silenzio della cornetta del cellulare dopo aver digitato il numero del pronto intervento e quello di chi viveva affianco ai protagonisti di questa tragedia ed è rimasto sordo alle grida d’aiuto.
Nel frattempo, in mezzo a questa assurda tragedia figlia di piccoli e grandi colpe, tra una perdita evitabile attraverso cura, amore e costanza, la comunità senegalese si è mobilitata, attivando una raccolta fondi spontanea per i funerali del giovane e per la sua famiglia e che “Quindici” promuoverà nel caso verrà allargata alla cittadinanza tutta.
Non si sa ancora se la salma sarà riportata a casa o meno, l’unica certezza a oggi è che nel momento del bisogno un pezzo di Molfetta ha mostrato il suo lato peggiore, lo stesso che in passato si è mostrato sottoforma di negazione di tirocini lavorativi o di affitti per rifugiati: la maledetta indifferenza.
Un’ indifferenza che genera sconforto e rabbia in chi scrive questo pezzo e sicuramente in chi, in un terribile 2020 dilaniato dal coronavirus e da innumerevoli lutti, piange la prematura scomparsa del proprio parente, di un amico. Di un essere umano. Di Souba.
Gabriele Vilardi
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