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Molfetta di 50 anni fa nel racconto di un cronista di razza: Michele de Sanctis Ricordo a un anno dalla scomparsa
15 dicembre 2012

Nel giorno di Natale del 2011 ci lasciò il prof. Michele de Sanctis, giornalista di razza, cronista infaticabile che per oltre 70 anni ha raccontato la sua Molfetta, che amava profondamente, come amava il suo secondo lavoro al quale ha dedicato tante energie e tanta passione, la stessa che metteva nella dedizione all’insegnamento di generazioni di alunni e nel culto della famiglia. Chi vorrà fare la storia della città, non potrà fare a meno di consultare i suoi articoli, puntuali e rigorosi su tanti giornali dal “Messaggero” di Roma al quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno” della quale è stato corrispondente per molti decenni. A un anno dalla scomparsa del papà del giornalista economico della “Gazzetta”, Felice de Sanctis, direttore di “Quindici”, ci piace ricordarlo con un suo scritto, una descrizione di Molfetta di 50 anni fa, come appariva a un turista fin dalla prima immagine che vede dal finestrino del treno. L’articolo fu pubblicato nel 1963, negli anni del boom economico, sulla storica rivista “Settembre a Bari - Rassegna del progresso della Puglia e della Lucania”, realizzata all’epoca ogni anno in occasione della Fiera del Levante: qui siamo alla XXVII edizione. Sulla stessa rivista, accanto al suo articolo, ne appare un secondo, dedicato anch’esso alla città e firmato da un suo amico, un’altra grande figura storica di Molfetta, il prof. Vincenzo Zagami, politico e giornalista, fondatore e direttore del glorioso periodico cittadino “Molfetta nostra”. L’articolo di Michele de Sanctis che vi proponiamo è una descrizione puntuale, preciso nei dati, impietoso nell’analisi economica, in molte parti ancora attuale, ricco di particolari con pennellate di storia, un racconto quasi poetico che rivela proprio quel suo amore per la città e quella passione per il giornalismo che ha saputo trasmettere anche al figlio Felice e al nipote Michele. Ripubblicarlo, nel primo anniversario della sua morte, ci sembra il modo migliore per ricordare una delle figure storiche del secondo Novecento, una lezione di giornalismo in un’epoca in cui non ci sono più Maestri. (Il prof. Michele de Sanctis verrà ricordato mercoledì 26 dicembre, con una S. Messa in suffragio, nella Chiesa del S. Cuore a corso Umberto alle ore 19).

 

Chi si affaccia al finestrino del treno, guardando, a destra, la bianca grande distesa di case, in mezzo alla quale svettano i campanili delle chiese, sotto un cielo cobaltino, riporta una impressione incancellabile, unica da Pescara in giù. I grandi palazzi di Piazza della Ferrovia vi fanno credere di essere a Genova, sia pure in proporzioni ridotte, illusione che si consolida se imboccate via Baccarini e date un’occhiata alle belle vie e alle superbe costruzioni del quartiere di sudest, sorto unicamente per iniziativa privata in quest’ultimo decennio, seguendo il piano di fabbricazione tracciato dall’ing. Felice Mezzina. Ma se scendete da via Marconi e vi fate condurre a mare dalla pendenza delle vie, ahimè, lo scenario cambia e Voi cogliete i vari aspetti della Molfetta ottocentesca, che resiste ai colpi di piccone, con i suoi forti contrasti, con le sue note di colore, con le belle e brutte abitudini della sua gente, col disordine anarcoide delle sue costruzioni, con i ricchi negozi di via Margherita di Savoia, con la turbata serenità di Piazza Vittorio Emanuele, con la ipsilon di via Sant’Angelo, ove i due sensi del traffico stradale convergono in uno stretto budello, quanto mai pericoloso per la pubblica incolumità. Grazie alla protezione visibile dell’Angelo, al quale è dedicata la strada, pedoni e motorizzati escono su Corso Dante ed un altro scenario, di balzo, sorprende l’occhio del visitatore. Le costruzioni del corso lo riportano in pieno Seicento e Settecento; la profanazione del volgarissimo cemento è avvenuta solo in due punti, palazzo Caffarella e palazzo Pappagallo. Da un lato si snodano le mura dell’antico borgo medioevale, la «Terra » adattate con gusto e sapienza a negozi e circoli, dall’altro le prime costruzioni della città nuova, quando, saturato di abitanti e di case-torri il nucleo urbano primigenio, liberati dalla paura delle incursioni saracene e turchesche e dei colpi di mano dei fuorilegge, sotto il saggio governo di Carlo III di Borbone, borghesi, mercanti e contrabbandieri sentirono il bisogno di dilagare negli orti, nei giardini, nei vigneti lussureggianti entra moenia. Il Purgatorio, con la bella facciata in pietra locale d’uno stile Rinascimento già corrotto dal Barocco, custodisce le belle «statue » che il Sabato Santo precedono quella della Pietà, portate in processione dalla lunga teoria dei fratelli della «Morte »: tutte in cartapesta di Giulio Cozzoli, di grande interesse artistico per il verismo che distacca lo scultore dal classicismo un po’ accademico nel quale si compiacque attardarsi in altre opere. La Cattedrale, della fine del Settecento, è un esempio unico in Puglia di quello stile gesuitico che ha il suo prototipo a Roma. Nell’interno si ammirano belle pitture di Corrado Giaquinto, di Nicola Porta, di Fischietti, di Vito Calò, di Paolo Lanari, di Carlo Rosa e la bella tavola di scuola senese del XVI secolo del Transito della Madonna. Ancora più giù un altro gioiello rinascimentale, la Chiesa di Santo Stefano, la «parrecchiedde», sede dell’Arciconfraternita del Sacco rosso, che il Venerdì Santo porta in processione le cinque statue lignee dei «Misteri», di squisita fattura veneziana. Nell’interno un altro capolavoro del Giaquinto: la Madonna col Bambino e l’Arcangelo Raffaele. Di fronte la bella statua di Mazzini, una delle prime e più indovinate opere di Filippo Cifariello. Corso Dante, nella denominazione popolare, è restato «u vurghe», la strada delle solenni sfilate religiose e civili, delle passeggiate estive di chi vuole respirare una boccata di brezza marina, di tutti i trasporti funebri. Si direbbe che i morti vogliano consolarsi portando nell’al di là la visione del più bello scorcio panoramico della loro città natale, il porto, custodito dalla Chiesa Vecchia e dal Santuario della Madonna dei Martiri, solcata da motopesca ronfanti in arrivo e in partenza, tenuto desto dall’alba al tramonto dal picchiettio arguto dei calafati e dei maestri d’ascia, che ieri lavoravano intorno ai galeoni crociati, oggi infittiscono di veloci natanti le flottiglie pescherecce mediterranee. Al tramonto tutto lo specchio d’acqua è un incendio: cielo e mare hanno i riflessi dell’oro stagliata nel fuoco, della lacca lucida, della malachite fusa nell’ametista. Sulla banchina di S. Domenico, di fronte al mercato ittico all’ingrosso, che ha la grazia veneziana e la civetteria moresca, al sorgere e al tramonto del sole le barche riversano centinaia di cassette di pesce di ogni qualità, d’ogni grandezza, il pesce azzurro catturato nella notte illune da cento lampare, i merluzzi casti e affusolati, le triglie barbose dalle squame di corallo e di argento, i polipi muschiati, i calamaretti alabastrati, le rane angolose, i gamberetti antennati come apparecchi televisivi, le penne zigrinate, gli squali mostruosi. Il pesce è subito introdotto nel mercato, astato da cinque urlatori in un dialetto che viene scambiato per l’arabo delle banchine di Alessandria di Egitto, portato via su cento autocarri che lo smistano nei mercati vicini e lontani. Tutto questo in un minuto, in pochi minuti, come merce di contrabbando o di provenienza furtiva. La sorpresa del viaggiatore continua se la passeggiata si prolunga sulla vicina spiaggia della Maddalena, ove vi sono otto cantieri navali, nel disordine preesistente alla creazione del mondo, nel luridume più maleolente e più sano nello stesso tempo, in quanto al puzzo di rifiuti in decomposizione si sovrappone l’odore sano, acre, disinfettante della pece, del catrame, del pino resinoso, dell’alga di mare, delle catene uscite calde calde dalla fucina, delle invasature che tengono prigionieri ancora per pochi istanti natanti pronti per il varo. Avanzare sullo scalo è un problema per gl’ingombri, le catene e i cavi degli scafi tirati a secco, le cataste di legname, le costruzioni e le demolizioni in corso. IL MARE E LA CAMPAGNA FONTI DI RICCHEZZA Sul porto e sullo scalo, sulle banchine e nel mercato ittico si ha la netta sensazione che la grande ricchezza di Molfetta è il mare. E’ una cifra significativa. C’è un’altra ricchezza la campagna. Molfetta produce più ortaggi di Bisceglie, di Polignano. Chi si affaccia la mattina al mercato ortofrutticolo all’ingrosso riporta la stessa impressione vertiginosa del Mercato Ittico. Anche qui un movimento che va oltre il miliardo. I molfettesi, però, non si rendono conto dello sviluppo che il mercato ortofrutticolo può avere e si son fatti soffiare la centrale ortofrutticola. Certamente essi non hanno ancora capito perché «Molfetta nostra», battagliero periodico della «Pro-Loco », da quattro anni va pubblicando le cifre mensili del movimento del mercato. Gli è che Molfetta è stata la prima città pugliese a utilizzare quattordicimila metri cubi di liquami fognanti giornalieri a uso irriguo, ottenendo per lo stesso appezzamento di terreno non meno di quattro abbondanti raccolti annui. Produce oltre cinquantamila quintali annui di olio finissimo, ma stupidamente tanta ricchezza viene ceduta immediatamente ai Berio, ai Costa, ai Bertolli. L’EMIGRAZIONE - L’AMBIENTE SOCIALE Molfetta è la città che ha più emigranti all’estero: cinquantamila. Hoboken, negli Stati Uniti, per i due terzi è abitata da molfettesi. Port Pirie, in Australia, nella stessa proporzione, è costituita da cittadini oriundi molfettesi. Se ne trovano in tutto il mondo. Scherzosamente si narra che Colombo, mettendo il piede a Guanahani, incontrò un molfettese. Verso la fine del secolo scorso era la prima città industriale della provincia: oggi vivacchia dalla piccola industria, dalla pesca, dalle professioni e dall’impiego. Ha più maestri d’ogni città d’Italia in rapporto alla popolazione, uno per sessanta abitanti, ha oltre cento medici, quasi tutti generici, con un ospedale civile nuovo, che si ostina a restare incompleto. Dopo Bari è la città della Provincia che ha più laureati e diplomati. Fuori i molfettesi si affermano in tutti i settori: clinici di fama nazionale, provveditori agli studi, intendenti di Finanza, consiglieri di Stato, avvocati di grido (Augenti è uno), tecnici. L’aria del paese è traditoria, perché fiacca le volontà e il carattere. Dal suo seno Molfetta continua a esprimere cervellacci di prim’ordine, artisti sommi, pensatori solidi. Non ha ancora il suo piano regolatore. Ciò ha pregiudicato molto il suo avvenire industriale, la sistemazione urbanistica dei suoi quartieri centrali e non ha fatte scomparire le tracce della miseria dei secoli scorsi: i bassi, le vie strette e ammorbanti, i ragazzi abbandonati a sé stessi. Malgrado tutto, però, Molfetta non delude. E’ una bella città, interessanti sotto molteplici aspetti. Un’ultima citazione, ma non meno importante, la riserviamo al suo Carnevale che attira ogni anno nella ridente città adriatica varie decine di migliaia di forestieri, che, unitamente ai molfettesi, assommano ad oltre centomila e costituiscono uno spettacolo nello spettacolo. Quest’anno il Carnevale Molfettese, che si è imposto precedentemente all’attenzione della nostra e delle altre regioni d’Italia, celebrerà il suo decennale per la cui perfetta organizzazione si è già all’opera. Molfetta, comunque diverrebbe più bella se i suoi cittadini riprendessero quello spirito d’iniziativa in tutti i settori, spirito che in tempi non tanto remoti li additarono all’ammirazione di tutti.

 

 

Autore: Michele de Sanctis
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