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Molfetta 1917: la rivolta delle donne
15 febbraio 2017

Chi dice guerra dice morte. Chi dice guerra dice fame. A queste regole ferree non sfuggì, ovviamente, nemmeno la tanto decantata e deprecata Grande Guerra. Infatti, se sul fronte “esterno” la morte si subiva quotidianamente, sul fronte “interno” la fame si soffriva giorno dopo giorno, soprattutto da parte dei meno abbienti. «Il 1917», ricorda lo storico Giorgio Candeloro, «fu un anno di stanchezza e di crisi politica e morale per tutti i paesi belligeranti». Dovunque si aggravò il regime bellico con crescenti limitazioni della libertà. Dovunque si acuirono gli squilibri tra la minoranza di imprenditori e «pescicani», che ricavavano grossi profitti dalle forniture militari e dallo stato di guerra, e la stragrande maggioranza dei cittadini, sui cui piombava il peso economico e umano del conflitto. Dovunque si fecero più insopportabili le privazioni per le popolazioni civili. Dal 1° febbraio 1917 la Germania iniziò la guerra sottomarina illimitata contro tutte le navi da trasporto, anche se neutrali. Il pessimo andamento dei raccolti e gli affondamenti indiscriminati, che ostacolavano i trasporti marittimi e l’arrivo di rifornimenti alimentari indispensabili per la popolazione italiana, innescarono la perversa spirale del carovita. Si moltiplicarono allora gli scioperi e le manifestazioni contro i rincari, i razionamenti e la guerra. Crebbe il malcontento popolare e scoppiò in molti luoghi la ribellione contro la prosecuzione del conflitto. Tra il 1° dicembre 1916 e il 15 aprile 1917 in Italia vi furono circa 500 agitazioni, nelle quali le donne ebbero molto spesso un ruolo di primo piano. La partecipazione femminile è stata calcolata nell’ordine di parecchie decine di migliaia di donne, più nei centri agricoli che nelle città. Con il variegato ministero Boselli, dal 16 gennaio 1917 fu istituito in Roma il Commissariato generale per i consumi e per gli approvvigionamenti. Esso venne affidato al socialista riformista on. Giuseppe Canepa, che, ereditando una situazione disastrosa in un Paese di circa 36 milioni di abitanti ed imbrigliato da una burocrazia elefantiaca, lo terrà fino al 7 ottobre successivo, bersagliato da molte critiche. Questo Commissariato estese via via le sue competenze stabilendo la requisizione di nuove derrate alimentari, curando l’importazione di viveri dall’estero, agendo sulla regolamentazione dei prezzi, intervenendo mediante i succedanei sulla tipologia dei consumi e introducendo diverse forme di razionamento. Prima di giungere alla creazione degli Enti provinciali e comunali per i consumi si pervenne all’introduzione e all’estensione generalizzata del tesseramento dei generi di prima necessità. Dovendo disciplinare il razionamento dei viveri indispensabili, nel febbraio del 1917 il prefetto di Bari Angelo Pesce con una circolare istituì nella sua provincia la tessera annonaria per il pane e la farina. In difesa dei contadini e della poveraglia, Gaetano Salvemini intervenne tempestivamente su L’Unità del 23 febbraio 1917 con l’articolo Il prefetto di Bari. Il pezzo giornalistico fu cancellato dalla censura di guerra sia all’inizio che alla fine. Ad ogni modo, rimase fruibile la parte centrale, in cui era scritto: «Dunque il prefetto di Bariha stabilito la tessera del pane nella sua provincia. Va bene. Ma ha stabilito un massimo di 500 grammi a testa giornalieri di pane, e 400 di farina. E qui si vede come il prefetto ora bravo a fare le elezioni capisce niente del paese, che deve amministrare. Mezzo chilogramma di pane al giorno è anche troppo per il prefetto, che mangia anche carne, e uova, e paste, e riso, e tanto altro ben di Dio, che se ci fosse giustizia a questo mondo dovrebbe trasformarglisi in corpo in altrettanto veleno. Ma il contadino pugliese e la sua famiglia non mangiano altro che pane e legumi, pane e verdura, pane e frutta in estate: pane, pane, pane. Un contadino pugliese non ha bisogno di nessuna circolare prefettizia per limitare i suoi consumi: i suoi consumi sono limitati normalmente da una frugalità proverbiale ed eroica. Ma con meno di un chilo e mezzo di pane al giorno un contadino pugliese non può mangiare; con meno di un chilo di pane al giorno un adolescente pugliese, che deve crescere, muore di fame. Un chilo di pane al giorno è il minimo che si possa concedere a testa giornalmente a una famiglia di contadini pugliesi. Il prefetto di Bari, evidentemente, vuole imitare Maria Antonietta: a chi non avrà pane raccomanderà di mangiare delle brioches». In base alle disposizioni del prefetto, dal 1° marzo a tutti i municipi della provincia di Bari fu imposto di consegnare ai capifamiglia la tessera per il pane, la farina, lo zucchero, il riso, il petrolio (per lampade e simili) e altro ancora. Si assegnavano 500 grammi di pane o 400 grammi di farina e 20 grammi di zucchero a persona. La farina e il pane erano con la crusca. Si diffuse così sulle mense il “pane di guerra”, ma le farine di frumento mescolate a quelle di altre granaglie o, peggio ancora, le farine adulterate circolavano almeno dal 1915. In quel triste periodo di privazioni, a Molfetta il Comitato di insegnanti diretto dalla professoressa Rosaria Scardigno, dialettologa, femminista e scrittrice, il quale raccoglieva rottami di oro, gioielli vecchi e denaro per la Patria, cominciò a essere malvisto. La Scardigno, che nel 1903 aveva dato alla luce il Lessico dialettale molfettese-italiano e allora insegnava nella Regia Scuola Normale Femminile di Bari, il 4 marzo 1917 tenne alle alunne dell’istituto barese una conferenza patriottica, la quale, col titolo dannunziano “…imprendi, nel giorno che t’è innanzi, / il taciturno tuo combattimento”, fu poi stampata dallo Stabilimento Tipografico “Unione” di Ercole Accolti-Gil di Bari. L’opuscoletto fu venduto a 50 centesimi a favore degli orfani di guerra. A Molfetta la consegna delle tessere annonarie e il razionamento dei viveri, cominciati in marzo, creò molto malcontento nei ceti popolari e finì per incrementare il mercato nero. Tra l’altro, bisognava approvvigionare i soldati accasermati nel convento di San Domenico e negli stabilimenti Spagnoletti Attanasio e Pansini Gallo, nonché i militari ricoverati negli ospedali di guerra impiantati nel Seminario Vescovile, nella Scuola elementare “Manzoni”, nel Regio Liceo-Ginnasio e nell’Istituto per sordomuti “Apicella” (v. Gli ospedali di guerra a Molfetta nel 1916, in «Quindici», n. 3, 15 marzo 2016). Per calmierare i prezzi, frenare l’esosità dei rivenditori e cercare di rendere più equa la distribuzione dei generi di prima necessità, su cui non esitavano a mettere le mani gli speculatori e i borsaneristi, sempre in marzo l’amministrazione molfettese, guidata dal sindaco salveminiano Graziano Poli, provvide all’istituzione dell’Ente Autonomo comunale per i Consumi. Nello stesso mese sommergibili tedeschi affondarono cinque mercantili americani. Di conseguenza il 6 aprile gli Stati Uniti d’America dichiararono guerra alla Germania. In Italia il razionamento, il carovita e la propaganda militarista e patriottarda indifferente alla miseria dei più finirono per esacerbare gli animi e creare disordini in molte località. Il 23 aprile 1917 a Lucera alcune centinaia di donne del popolo, protestando per l’introduzione della tessera per il pane, assaltarono il municipio e lo misero a soqquadro. Il 1° maggio a Conselice nel Ravennate le risaiole e le artigiane iniziarono uno sciopero chiedendo il ritorno degli uomini dal fronte o almeno un aumento del sussidio governativo alle famiglie dei richiamati. Sui muri delle strade si leggeva: «Abbasso la guerra! Viva la rivoluzione! Abbasso i preti! Abbasso la borghesia!». Il 4 maggio la protesta si allargò alle risaiole della vicina Massa Lombarda, molte delle quali furono arrestate e condannate a diversi giorni di carcere. Al principio di maggio vi furono manifestazioni contro la guerra pure a Milano e sommosse popolari in Lombardia. A Sesto San Giovanni, nel Gallaratese e nel circondario di Monza l’iniziativa fu presa dalle donne, che scagliavano sassi, rompevano vetri ed esigevano la chiusura delle fabbriche di munizioni e materiale bellico. A Sesto furono svaligiate le case di alcune persone sospette d’interventismo. Per questo il prefetto di Milano in un telegramma al Ministro degli Interni nello stesso mese di maggio avvertiva: «Gli animi delle contadine sono esasperati contro i “signori” che hanno voluto la guerra», “signori” ritenuti responsabili dell’assenza dei propri maschi validi e di conseguenza delle difficoltà in cui le popolane si dibattevano. In questo marasma, i bollettini prefettizi sancirono la decadenza di tutte le amministrazioni dei Consorzi granari provinciali per il 31 maggio 1917. Per le nuove amministrazioni fu previsto un rappresentante del Commissariato generale dei consumi nominato dal prefetto di diritto. Ma lo stillicidio della sottoalimentazione e delle proteste non era finito: nel giugno del 1917 ci furono tumulti anche a Molfetta, dove i sobillatori e i pacifisti non mancavano e la tensione era molto forte, anche perché, ai 218 molfettesi morti in guerra dal ’15 al ’16, si erano aggiunti almeno altri 44 caduti solo dal gennaio al maggio del ’17. Fu allora che una sassaiola di donne esacerbate dalle privazioni e dai lutti del conflitto investì alcune maestre elementari che giravano per la raccolta dell’«oro alla Patria» e questuavano lana e fondi per la Croce Rossa Italiana. Alcune insegnanti vennero sequestrate, insultate e percosse da un gruppo di popolane con l’accusa di contribuire alla continuazione della guerra. Altri disordini avvennero a Ruvo e a Barletta. Salvemini ebbe notizia degli incidenti avvenuti nella sua città e da Firenze il 30 giugno 1917 per lettera ne fece parola col suo devoto seguace socialista Giacinto Panunzio: «I tumulti di Molfetta mi hanno molto addolorato. Ma siamo giusti: dopo due anni di guerra, NOI abbiamo il dovere di star fermi al nostro posto di combattimento: perché la nostra cultura ci permette di comprendere l’importanza della lotta e la necessità di certi sacrifici. Ma le povere donne del popolo non possono fare il nostro sforzo. Soffrono da due anni, per una causa che non comprendono, dolori non mai visti. Ed è naturale che la prima voce, che le ecciti stupidamente e malvagiamente trovi facile eco. Perché ciò non avvenisse, occorrerebbe che un contatto continuo di fiducia vi sia fra classi superiori e classi inferiori. Si trova in guerra quel che abbiamo seminato in pace. E in pace che cosa è stato seminato? […] Finita la guerra, col suffragio universale, bisognerà bene che il debito verso la povera gente sia pagato, se non vorremo saltare tutti per aria alle prime elezioni. A me non fanno paura né i socialisti né i preti: fa paura l’egoismo della borghesia, che vorrebbe non aver seccature. Ebbene io voglio che abbia più seccature che sia possibile. O farà il suo dovere o salterà per aria». Ad aggravare la situazione locale intervenne la crisi dell’Ente Autonomo per i Consumi del Comune di Molfetta. Due consiglieri di amministrazione antagonisti, gli avvocati repubblicani Domenico De Ruvo e Sergio Azzarita, con una lettera del 18 agosto 1917 rassegnarono le dimissioni «rilevando che i criteri amministrativi seguiti dal Comitato esecutivo dell’Ente non erano ispirati alle finalità dell’Ente stesso». In altre parole rimproveravano al presidente salveminiano rag. Domenico Turtur, che era anche assessore di piazza, l’intento di conseguire degli utili, anziché preoccuparsi di approvvigionare la città dei generi di consumo popolare a prezzi di puro costo per calmierare il mercato. Tuttavia essi non ignoravano che quegli utili sarebbero andati a beneficio della Congregazione di Carità per la formazione della rendita a favore dell’asilo infantile “Filippetto” fondato da Salvemini. In séguito a ciò l’Ente Consumi sarà sottoposto a diverse inchieste prefettizie e quindi ad amministrazioni straordinarie commissariali, che alla fine porteranno alla sua soppressione. Pur in mezzo a queste difficoltà, l’assessore socialista Alessandro Guidati, altro seguace di Salvemini, non smise di prodigarsi per lenire in qualche modo i disagi alimentari della popolazione, che annoverava molti poveri, vedove e orfani di guerra. Intanto altre proteste femminili contro la guerra si erano avute un po’ dovunque, per esempio a Castel Bolognese nel Ravennate il 17 e il 19 agosto e a Sannicandro Garganico il 20 agosto. Il peggio, però, si ebbe a Torino, dove la mattina del 22 agosto, per un ritardo nei rifornimenti di farina, il pane mancò in quasi tutte le botteghe. Al grido di «Vogliamo la pace, abbasso la guerra!» nacque una dura sommossa operaia, a cui tuttavia furono estranei i dirigenti socialisti e sindacali. La rivolta della fame, alla quale alcuni anarchici tentarono di dare un carattere fortemente insurrezionale, fu soffocata solo il 28 agosto, provocando una cinquantina di caduti fra i rivoltosi, una decina di morti fra la truppa e le forze dell’ordine, circa 200 feriti e un migliaio di arrestati. Nel dialogo satirico Il nipote di Rameau il filosofo Denis Diderot ha scritto: «La voce della coscienza e dell’onore è ben debole quando le budella urlano». Di questo furono ben consapevoli le donne italiane, che in quei terribili mesi del ’17 (e non solo in quelli) si accorsero fatalmente sulla propria pelle che, al di là dell’onore e della morte, il vero volto della Grande Guerra era la fame. Perciò pure a Molfetta, anche se in modo scomposto e inadeguato, le donne del popolo ebbero il coraggio di lottare e ribellarsi per i loro uomini al fronte o già caduti, per le loro famiglie in difficoltà e i loro figli affamati.

Autore: Marco Ignazio de Santis
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