MOLFETTA – Ricorre oggi il 20° anniversario della tragedia del Moby Prince (foto) della Navarma, la collisione nel porto di Livorno fra il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo, incendiatasi e trasformatasi in un'enorme bara galleggiante per 140 delle 141 persone a bordo, fra cui 4 molfettesi: Giovanni Abbattista (46 anni), Natale Amato (53), Giuseppe de Gennaro (29), Nicola Salvemini (36).
Dopo tanti processi, alla fine è arrivata l’archiviazione che ha chiuso la vicenda senza colpevoli. Al rogo sopravvisse solo il mozzo Alessio Bertrand, il quale non riuscì a spiegare che cosa fosse accaduto nei pochi minuti di navigazione che separarono l'allora ammiraglia della flotta Onorato dall'ormeggio a quel muro di petrolio e lamiere che inghiottì vite, sogni, speranze e progetti di chi era a bordo.
Già la prima inchiesta puntò sull'incidente e su un improvviso banco di nebbia che nascose la petroliera alla vista del traghetto e la procura indagò per omissione di soccorso (la capitaneria di porto gestì male e in ritardo i soccorsi) e omicidio colposo. A giudizio finirono 4 imputati: il terzo ufficiale di coperta dell'Agip Abruzzo Valentino Rolla, accusato di omicidio colposo plurimo e incendio colposo per non aver segnalato la sua nave alla fonda con in dispositivi antinebbia; Angelo Cedro, comandante in seconda della Capitaneria di porto e l'ufficiale di guardia Lorenzo Checcacci, accusati di omicidio colposo plurimo per non avere attivato i soccorsi con tempestività; Gianluigi Spartano, marinaio di leva, imputato per omicidio colposo per non aver trasmesso la richiesta di soccorso. Due anni di udienze, anche tesissime, e il 1 novembre 1997 a notte fonda il tribunale pronuncia la sentenza: tutti assolti perché "il fatto non sussiste". "Ce li hanno uccisi un'altra volta", fu il commento dei familiari. La sentenza verrà solo parzialmente riformata in appello: la terza sezione penale di Firenze dichiarò il non doversi procedere per la prescrizione del reato.
Eppure nelle pagine dell'inchiesta giudiziaria c'erano elementi che balzavano agli occhi. Che imponevano investigazioni più accurate. Fu l'allora pretura di Livorno a giudicare due posizioni stralciate: quella del nostromo del Moby Prince Ciro Di Lauro, sbarcato poco prima che la nave salpasse, che si autoaccusò della manomissione, sulla carcassa del traghetto bruciato, della timoneria, e quella del tecnico alle manutenzioni di Navarma, Pasquale D'Orsi, chiamato in causa dallo stesso Di Lauro. Erano accusati di frode processuale, per aver modificato le condizioni del luogo del delitto e incolpare il comandante.
Ma quell'azione fraudolenta, accertata anche processualmente, non era punibile perché non modificò la timoneria già compromessa dall'incendio. Insomma furono giudicati colpevoli ma non punibili, con una sentenza confermata fino in Cassazione. Abbastanza per cercare di capirne di più. Eppure non è stato così. Ed è stata recentemente archiviata dalla procura livornese anche l'inchiesta-bis, aperta su istanza dell'avvocato Carlo Palermo, che prospettava un complesso scenario di operazioni militari segrete e illegali che avrebbero determinato l'incidente e compromesso i soccorsi. Indizi che non hanno trovato riscontri secondo i magistrati livornesi che hanno concluso le indagini affermando che l'incidente fu provocato da un errore umano, dalla presenza della nebbia e da una nave, il Moby Prince, che navigava in pessime condizioni di sicurezza.
Il procuratore di Livorno De Leo spiegò così le conclusioni del’inchiesta. “L’incidente è stato per un errore umano dovuto a un banco di nebbia che ha avvolto la Moby Prince prima dell’urto sulla petroliera”. Insomma, fatalità ed imprudenza del personale del traghetto in servizio sul ponte di comando. La Procura quindi non ha trovato riscontri sulle ipotesi avanzate dall’avvocato Carlo Palermo, per conto dei figli del comandante del traghetto, Angelo e Luchino Chessa, e altri parenti delle vittime del Moby Prince, nell’istanza di riapertura delle indagini presentata nel 2006. In quasi 600 pagine di memoria difensiva, il legale metteva in fila una serie di dubbi inquietanti e uno scenario tutt’altro che accidentale.
“Quella sera – scriveva Palermo - nel porto di Livorno sarebbero state scaricate armi da navi americane che non sarebbero però arrivate alla loro destinazione naturale, la base di Camp Darby (Pisa)”. I magistrati hanno anche confermato che il traghetto della Navarma non era in buone condizioni e “navigava senza le necessarie misure di sicurezza”. Ma i relativi reati sono ormai prescritti. La decisione della Procura ha lasciato di stucco Luchino Chessa, che era certo di un esito diverso. “Abbiamo letto le motivazioni e per noi la faccenda è tutt’altro chiusa. Neanche il più inesperto marinaio avrebbe commesso l’errore così stupido di sfiorare a tutta velocità le navi militarizzate alla fonda e inchiodarsi su una petroliera illuminata come una raffineria. Come cittadini italiani e, siamo profondamente amareggiati per come una inchiesta, riaperta grazie a importanti prove, possa essere stata chiusa senza uno spiraglio di giustizia. Probabilmente, da più parti si vuole che questo ultimo atto sia l’epilogo di una storia processuale da chiudere per sempre, ma che apre nuovamente la funesta pagina delle tante storie di stragi italiane non risolte dal dopo guerra ad oggi. Abbiamo presentato l’opposizione alla richiesta di archiviazione e speriamo che il GIP si renda conto che non si può chiudere in questo modo una vicenda dai contorni non chiari e con un sacco di punti interrogativi”.
In quella sera di primavera di 19 anni fa si consumò la più grande tragedia della storia della marineria mercantile italiana. Due processi sancirono la stessa verità giudiziaria: fatalità e negligenza del personale. Gli unici imputati dovettero rispondere di reati minori ormai prescritti: mancata attivazione di procedure previste in caso di nebbia e di incidenti in mare. La fatalità di un improvviso banco di nebbia che avvolse l’Agip Abruzzo ancorata nella rada di Livorno, proprio mentre il Moby Prince, chiuse le procedure di uscita dal porto, prendeva il largo diretto ad Olbia. Accanto a ciò, i giudici scrissero di “avventata fiducia nella guida a vista, non confortata neppure da una pur saltuaria verifica al radar, invalidata da sostanziale negligenza e disattenzione”. Tali motivazioni non furono mai accettate sia dai familiari delle vittime, ma anche dalla marineria livornese, per le voci che circolarono nei giorni seguenti la tragedia negli ambienti portuali.
I movimenti in un porto importante e trafficato come quello di Livorno, difficilmente passano inosservati, per le tante persone che lavorano anche di notte. Addirittura si insinuò che il personale di bordo sarebbe stato distolto dalle sue mansioni da un’importante partita di calcio in tv, la semifinale della Coppa delle Coppe tra Juventus e Barcellona. All’indomani della sentenza, sulla stampa toscana cominciarono a circolare notizie di testimonianze, alcune anonime, di presenze nella zona di un traffico navale, con molti indizi, ma non suffragati da riscontri e dai registri ufficiali. Ad una trasmissione sulla strage di un’emittente locale, al telefono un telespettatore anonimo disse: “Dove entrano i militari esce la verità”.
All’epoca si era in piena prima guerra del Golfo e il traffico militare statunitense era sostenuto da e per la vicina base di Camp Darby. Operazioni militari, per motivi di sicurezza o quant’altro, forse non del tutto note all’autorità portuale. Un traghetto che esce dal porto a va a cozzare contro una petroliera avvolta in un improvviso banco di nebbia, per fatalità ed imperizia era una verità troppo banale e difficile da digerire. E se lo scenario fosse stato un altro? Arrivarono, libri e inchieste giornalistiche che ipotizzavano un’altra verità possibile. Per due anni l’avvocato Palermo, ex magistrato scampato alcuni anni prima per fatalità ad un attentato, mise insieme un puzzle fatto di tanti frammenti di verità e indizi inediti, che furono ritenuti fondati dalla Procura al punto da riaprire l’inchiesta. Dopo oltre tre anni, si è ritornati al punto di partenza: fatalità ed errore umano. Di questa tragedia nella memoria collettiva della comunità molfettese resta ben poco, solo il ricordo di parenti e amici dei quattro marittimi, anche se il Comune di Molfetta ogni hanno presenzia con il gonfalone alla commemorazione delle vittime. La comunità livornese, dove l’identità marittima conta ancora qualcosa, ha sempre tenuta accesa la fiamma della memoria. Alla vittime, il Comune di Livorno ha anche intitolato una piazza. Da ricordare l’iniziativa dal forte impatto mediatico, quando al’indomani della prima sentenza, gli sportivi livornesi esposero allo stadio l’enorme e profetico striscione: “Moby Prince, 140 vittime, nessun colpevole”.
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