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Miracolo al Purgatorio!
15 aprile 2021

Era rimasto lì tutta la notte. Non doveva aver fatto molto freddo, questo Tonino, sciarpa rossa e maglione logoro, lo deduceva dal fatto che non aveva mai tossito in quella notte che non avrebbe più dimenticato in tutta la sua vita. Quella era stata la Pasqua più importante dei suoi fragilissimi anni. Tonino, ultimo degli ultimi, ubriaco più per necessità che per piacere, abbandonato da sua moglie promessa compagna di un marittimo per niente male; dimenticato dai suoi due figli, Corrado e Pia, stanchi di soccorrerlo dai marciapiedi pettegoli del Porto di Molfetta, stanchi di riflettere la loro vita nei sorrisi beffardi dei parenti; era rimasto inesorabilmente solo. I soldi li raccattava facendo l’elemosina all’uscita delle chiese, fermo ai semafori, in tutti quei luoghi che tutti noi bene conosciamo, quando la nostra carità cristiana fa a pugni con l’inerzia e la velocità delle nostre cose quotidiane. Tonino, un tempo scalpellino e muratore sollevava nei concittadini la domanda ipocrita del come mai un uomo degno e rispettabile potesse scendere così in basso fino toccare l’orlo dell’inferno. Quell’anno poi. Così triste e severo. La pandemia aveva cancellato il sorriso dal volto della gente. Con le mascherine finanche i bambini gli sembravano cinici pagliacci. Per la seconda volta, in due anni, le autorità avevano proibito l’uscita delle statue in processione. Tutto ciò non accadeva da ottant’anni, pensate un po’! Il primo divieto fu ordinato per via della guerra imminente e Tonino allora aveva solo ventun anni. Ricorda aveva rischiato di partire per il servizio militare, di ritrovarsi dunque in trincea. Ma lui alla fortuna, nella sfortuna, ci credeva. Primo di sei fratelli aveva consegnato le sue braccia alla terra, tuttofare prima e manovale dopo, sino a ritagliarsi un lavoro di rispetto, scalpellino per l’appunto. Si erano celebrate le Sante Messe e lo scalpellino di Molfetta aveva chiesto di sostare un attimo sul sagrato del Purgatorio, Chiesa amatissima dai suoi concittadini per via delle rinomate sette statue in cartapesta del Sabato Santo. Non poteva Tonino sapere che il vero nome di quella Chiesa era stato quello di Santa Maria Consolatrice degli Afflitti, era dunque davvero nel posto giusto. Era accaduto quell’anno un fatto strano. In piena epidemia erano state forse trafugate, o forse nascoste le sette statue del Purgatorio. Questo accadimento aveva creato uno sconcerto terribile tra i fedeli. In tanti si erano mossi per cercare quelle opere d’arte, simulacri di Fede non solo per i credenti ma per tutti, davvero tutti. Il Vescovo aveva incontrato i capi delle Confraternite per ben capire cosa era potuto accadere. Persino il Papa aveva pregato i potenziali mercanti d’arte di riportare il Sacro tesoro nelle stanze della casa di Dio. Vi lasciamo immaginare le chiacchiere del Paese. Come spesso accade potenzialmente tutti potevano essere i mandanti, tutti i mercanti, tutti gli eretici. Si invocava anche l’intervento della Polizia poiché qualcuno aveva iniziato a parlare di messe nere tenutesi come un sabba nelle torri presenti nell’agro molfettese. Il priore del tempo già ferito nell’orgoglio per non essere riuscito a portare fino in fondo la sua missione di custodia, di fatto, viveva in quella Chiesa che da tempo immemore era l’icona della tribolazione pasquale. Si chiedeva come poteva essere accaduto, quando e chi aveva potuto trafugarle. Portare via sette statue alte quante un comune essere umano, pesanti ed ingombranti, in un periodo in cui, benché tutti a casa per il pericolo del contagio, (era pur sempre un periodo festivo dunque con gli occhi della gente sempre rivolti alle porte di quella Chiesa); doveva pur sempre essere l’azione di esperti e furbi malviventi. Tuttavia dal venerdì Santo di quel terribile A.D. 2021 quelle creature divine del celebre scultore Giulio Cozzoli erano scomparse. Oronzo, custode della fede dei confratelli e placido ma arguto priore del Purgatorio, baffi a manubrio un po’ a carabiniere, era semplicemente distrutto. Chiuso in un mutismo religioso a chi provava a chiedergli cosa ne pensasse di quell’esecrando gesto, rispondeva con poche sillabe che sgorgavano in un mesto pianto e un: «non so, non so, non so nulla, lasciatemi stare-vi prego!». L’avevano dovuto soccorrere i medici del 118 il Sabato Santo, nel pomeriggio, quando in preda ad un delirio aveva iniziato a sbraitare e a chiedere a Nostro Signore di colpire il suo petto con strali per aver meritato l’ostracismo dei molfettesi, scambiando Dio per Zeus. Era stato in quel momento di grande parapiglia che il Nostro santo bevitore di nome Tonino si era come un gatto intrufolato nella canonica andando a riparare in un confessionale buio e tetro. Coperto da un panno di velluto rosso porpora, nel buio di quel parallelepipedo sazio di peccati d’ogni sorta aveva passato le ore di maggiore confusione. Sino a sentir chiudere dietro di sé il pesantissimo portone con mandate degne d’una cella di Regina Coeli. Restare in chiesa soli è un’esperienza mistica da provare, pensava Tonino. C’era entrato tante volte in quella Chiesa. Certo l’assenza delle statue la rendeva più tenera e tristemente umana. Quel taglio di luce centrale che penetrava dal finestrone della facciata della Chiesa dava un’aria solenne e magica alla navata. Era solo e, d’istinto, aveva voluto salutare il Signore facendosi il segno della croce. Un saluto che lo riportava a quand’era bambino. Un gesto però che in quel momento diventava importante, necessario. Aveva anche anticipatamente chiesto al Signore perdono poiché lui, Tonino senza vino proprio non ce la faceva a stare. E l’aveva trovato sull’altare rimasto disponibile a chicchessia. Ed il pane l’aveva trovato pure nel tabernacolo rimasto aperto per via del parapiglia. Un’eucarestia insomma fai da te. Bevuto goccia a goccia tutto il vino, Tonino s’era acquattato su di una panca. Cane di razza umana, tenero bambino, in una notte sconsacrata. In passato s’era accucciato quel povero Cristo in tutti i letti urbani. Marciapiedi, panchine, pagliericci, aiuole, persino carene di barche ormeggiate. Ma quella notte nulla. Non riusciva a prender sonno. Sentiva nelle sue orecchie una voce lontana che diceva: Vigilate et orate ut non intretis in tentationem. Lui che il latino proprio non lo conosceva, non l’aveva mai studiato! Una reminiscenza? Chissà! Poi un vociare che si faceva sempre più intenso. Proveniva dalla strada. Certo doveva essere notte fonda. Lo diceva il lucernario della chiesa. La luna timidamente s’era affacciata su quello zenith, prima, tenuto in ombra. Un lampo, certo se qualcuno fosse voluto entrare avrebbe dovuto riaprire quel portone con quelle pesanti mandate. Invece nulla, la porta del Purgatorio si aprì di colpo, senza opporre alcuna resistenza. Delle persone avevano fatto il loro ingresso. Erano in sei. Due uomini stanchi e quattro donne coi capelli scarmigliati. Vestiti di sai, drappi di cotone, juta e lino consunto. Un signore con la barba bianca aveva già attraversato la navata per sedersi, stanco, lì proprio sotto l’altare; poi un gruppetto di donne dai volti gentili e rugati di lacrime. Chiudevano il gruppo di intrusi un giovane bellissimo, occhi madidi, capelli lunghi, costernato ma compunto nel dolore sottomesso al dolore e alla fatica più spirituale che corporeo nel sollevare una bellissima figura angelica dai capelli rosso carminio anche lei piangente ma forte nella sua trabeazione umana. Tutti loro, dismessi quei simulacri e accomodati i loro panni , come attori all’epilogo del loro ultimo atto scenico, ma senza finzione, si disposero attorno all’esterrefatto Tonino, sedutiaipiedidell’altare. Che potesse essere l’effetto di quel vinsanto bevuto sull’altare, non doveva essere sembrata a Tonino, un’inutile facezia. Loro, come disposti in un dipinto di Leonardo erano immobili, esausti e tenebrosi in quel Chiaravaggesco tenore. Lo guardavano fisso fisso. Lui li studiava come un bambino dinanzi ad un’onda di otto metri che si sta per abbattere sulla testa. Istanti di silenzio che parevano un’eternità. Tutti immobili. Poi quelle persone che venivano da un altro tempo presero a sibilare tra loro. Dunque guardarono verso l’ingresso. Tonino capiva che c’era qualcosa che stava ancora per accadere dietro di sé, che le sorprese non erano finite! Difatti un cane di nome Rufus, molto amato in città, portava nella bocca un GALLO che lasciato libero dal quadrupede prese a camminare beccheggiando semi nella mano di quell’uomo con la folta barba; un’AQUILA velocemente planava sulle schiena di una donna e deponeva col suo lungo becco una corona di spine sulla schiena di una delle Sante Donne; incredibilmente, un LEONE, criniera veneta, vomitava tre lunghissimi chiodi facendoli rovesciare ai piedi di quella bellissima affranta giovinetta dai capelli color del fuoco. Chiudevano il cerchio quasi circense un ASINO ed un BUE. Condividevano coi loro larghi musi un panno di lino sulla cui tessitura era impresso il volto di Cristo. Tonino, angelo alticcio, iniziò ad udire una voce straziante di Madre che proveniva dalle strade: «Yeshua!... Yeshua!... Yeshua!». Le urla crescevano, poi si disperdevano per le strade del borgo vecchio. Ancora un istante. Tonino ebbe modo di osservare in un panoramica divina quel portentoso miracolo. Il più giovane di quelli poi parlò in una lingua antica che però fu colta dal nostro minimo eroe: «Sono Giovanni. Ho visto ed ho creduto. Cristo è Risorto. LUI, È! Va’, amico mio, vai ad annunciare amico mio!». Buio pesto. Mattino di Pasqua. Le statue sono tornate nelle loro teche. Tonino era tornato a camminare per le strade. Sobrio. Ricordate: la Verità è cosa da pazzi o da ubriachi. Al meglio di tutt’e due.

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