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Mediterranea-mente. Successo della mostra a Bari di Gaetano Grillo
15 dicembre 2007

Non l'approdo al centro di un orizzonte vuoto, come nella sconsolata riscrittura calviniana del viaggio d'Astolfo nel “Castello dei destini incrociati”, ma il fertile contatto con un crogiolo di mondi carichi di complessi signifi cati è l'esito della fi ctio del viaggio alla base della stimolante, e bella, esposizione di Gaetano Grillo, che torna dopo 35 anni con una mostra a Bari (la sua prima personale si tenne nel 1972 alla galleria “La Bussola”). Allestita nella Sala Murat di Bari, “Mediterranea- mente” muove dalla fi nzione che ciascuno dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo abbia inviato a Bari, per l'occasione, un reperto recante tracce degli elementi genetici della propria identità. Ecco il senso, dunque, da attribuire al fulcro dell'esposizione, l'installazione delle quindici Veneri (in stretta correlazione con il mito della Grande Madre), ciascuna effi gie di una popolazione. All'esuberante fi sicità della sezione anteriore della scultura, non estrinsecazione dell'immagine ideale di una bellezza ectoplasmatica, ma calco effettuato su corpi viventi (omaggio alle involontarie sculture umane di Pompei), fa da cassa di risonanza la parte retrostante d'ognuna. A contrassegnarla iscrizioni in italiano, greco antico, arabo, ebraico, francese, inglese; solchi che s'imprimono nella materia a testimoniare gli infi niti itinerari di una cultura che – sottolinea l'artista – “nasce per stratifi cazione di differenze”, specchiandosi su un mareombelico/ del/mondo e “metafora dell'intero pianeta”. Nell'arte di Grillo, tecnicamente complessa e raffi nata (cito Pablo J. Rico: «le quindici sculture sono state realizzate in resina [...], dipinte con effetti plastici tridimensionali nella loro parte concava, dorate con la tecnica tradizionale della “foglia d'oro” e infi ne laccate nella superfi cie convessa»), nulla riveste funzione meramente esornativa. Gli stessi basamenti su cui posano le sculture dialogano con l'ingegnosa fi ctio all'origine dell'allestimento, mutandosi, all'occorrenza, in casse, all'interno delle quali le Veneri-Matrie si suppone abbiano affrontato il viaggio per pervenire in Puglia. Catalizza l'attenzione la “Venere ignota”: centro cui idealmente tendono le altre sculture, è l'unica a essere priva dei contrassegni identitari. È l'ipostasi dell'identità perduta; è forse il profugo che, sgusciando clandestino in terra straniera, s'è cibato dei frutti del loto smarrendo, in un disperato tentativo d'integrazione, la propria anima. La danza del gineceo è inghirlandata da realizzazioni pittoriche d'alto valore concettuale: in un frenetico intersecarsi di segni alchemici e linguaggi, la serie del Fibonacci cede il posto all'epopea dell'html sornione. L'arte diviene estremo strumento di chi cerca con ostinazione un ubi consistam: dipingere è il matissiano imperativo che campeggia sulla tavolozza raffi gurante un artista, il quale ci pare sbalzato da qualche greca oinochoe e un po' assomiglia a Odisseo. In un'ottica d'estrema apertura al mondo, che dalla reinvenzione di pubblicitarie icone piega alla contemplazione incantata della grazia cristallina di alcuni versi di un petrarchista d'eccezione come Michelangelo, tutto si sedimenta, si fa “profondo, evocativo e palpitante”, si “pulisce”, al punto che la bellezza di una Venere tutta forme può fi orire, inaspettatamente, da un cumulo di stracci. E l'arguzia di un calembour, in un sorridente omaggio all'amico-pittore Salvo, fi nisce con l'accomunare genialmente il “cogito” di Descartes, la lingua d'Internet e il modello assunto: “I paint, therefore sono salvo!”. Il viaggio delle Veneri è servito, oltre che a colloquiare, all'insegna della “civil conversazione”, con le anime del Mediterraneo, a riaffermare, con orgoglio, la propria identità d'artista.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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