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Mare e barche nei quadri di George Farah
15 aprile 2014

Fino al aprile, presso lo Spazio aperto all’Arte, in via Piazza, nel Centro Storico di Molfetta, sarà possibile visitare la bella personale “Mare e barche”, del pittore egiziano George Farah, da anni attivo nella nostra città. L’allestimento, organizzato dal Centro Culturale Auditorium insieme al Comune di Molfetta, è stato tenuto a battesimo, con la consueta dotta eleganza dal preside, prof. Damiano D’Elia, direttore del Centro Culturale. Farah vanta un ricchissimo curriculum. Laureatosi in Egitto in lingua e letteratura francese, ha insegnato tale disciplina nei due più prestigiosi licei francesi del Cairo e, successivamente, anche all’estero. Musicista (ha studiato tromba e chitarra presso il Conservatorio del Cairo), si dedica alla pittura sin da quando era giovanissimo. In Italia, ha realizzato ben nove mostre, a partire dal 1987, quando ha allestito, presso l’Auditorium San Domenico, una personale relativa a “dipinti e grafica su papiri”. Ci piace menzionare le esposizioni più recenti, consacrate all’affascinante e sbarazzino rapporto tra “Donne e musica” (Chiostro della Fabbrica di San Domenico, 2011), ai “Gabbiani in libertà” (Università Popolare Molfettese, 2012, insieme al fotografo e amico Mauro Germinario, 2012), alla “Passione cavalli” (ANEB, 2013). E ora quest’interessante personale, dedicata al tema del mare amatissimo e delle barche, un caleidoscopio di fotografie, poesie, quadri realizzati con pastelli morbidi o a cera, inchiostro di china o carboncino. L’artista spazia, con padronanza, in diversi settori della creatività, eleggendo a centro della propria ricerca l’ambivalente “pelagus”, con le sue azzurre distese che divengono, di volta in volta, ricetto di gabbiani o di imbarcazioni, votate al viaggio o alla stasi. La fotografia emula spesso la pittura ed è così che tramonti, scorci crepuscolari o controre velano di specchi di luce o di splendide cromie le acque, come pastelli su morbide tele. In altri casi, lo sguardo attento dell’autore capta scampoli di vita, quasi carpiti a una quotidianità che, all’occhio estraneo, finisce col colorarsi di dolce mistero. Rifluire d’onde, voli di gabbiani in un cielo che si fa magica tavolozza, travagli di pescatori e barcaioli determinano un’atmosfera che coniuga delicata contemplazione della natura e attenzione al lavoro dell’uomo. La poesia spesso dialoga con la fotografia, come nei versi ispirati alla morte di un gabbiano. La congestione ha ormai reificato quello che un tempo era il danzatore a fior dell’acqua per antonomasia; i versi, però, restituiscono voce a quell’esistenza sfiorita precocemente. Vibra allora una dolente pietas, voce del savio che guarda il mondo da una specola, in cui non cessa di incantarsi e commuoversi. È nei versi ch’è svelata la metafora alla base della mostra, la sovrapposizione tra il viaggio per mare e l’itinerario dell’umana esistenza, che si dispiega con vigore nell’immagine del marinaio esperto che non teme tempeste o “burrasche”. O si esplica, umanissima, nell’icona della “barca rotta”, che trema al pensiero di riprendere il largo... Quando l’autore scrive in francese, come in “Lueur d’espoir”, la naturale melodiosità di tale lingua raggiunge punte di pacata dolcezza, in un’attitudine di confessione intima, che si esprime attraverso uno stile sorvegliato. Nei pastelli, la metafora dominante si squaderna in un’aura sognante e rarefatta. L’anelito alla libertà si ipostatizza nelle teorie di gabbiani, di cui, talvolta ricorrendo anche alla voluta violazione delle proporzioni, l’autore mette in risalto l’anatomia, ma anche il temperamento. In un cielo che pare inondato dalla carezza del sole, essi si incrociano con grazia naif o si rifugiano nel grembo di barche dondolanti sul pelago. A volte, Farah li ritrae tronfi e impettiti, con una bonomia che nasce dal profondo amore per il creato e le creature. Le barche sono fragili icone dell’umanità in viaggio; a volte planano su acque placate, non di rado striate di verde smeraldo, prezioso come il dono della vita, o di spume materiate di sogno. In altri casi, sembrano sul punto di inabissarsi, prede della grigia tempesta che confonde cielo e mare, pronta a risucchiare nel gorgo l’infinito viaggiare di ogni uomo. E quel veliero, fantasma che riemerge dall’antico, in un’aura sospesa e poetica, è forse la grazia dell’Arte, che risplende all’improvviso nelle nostre bonacce o burrasche e ci salva. 

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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