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Manuela Centrone e la morte di Orfeo
15 novembre 2009

Il mito del cantore trace, che sfi dò invano le leggi della biologia e per poco non riuscì (grazie alla melodiosità degli accenti risuonanti dalla sua cetra) a ricondurre viva dal regno dei morti la sposa Euridice, ha alimentato per secoli l’immaginario collettivo. Dal pianto senza requie dell’Orfeo virgiliano potremmo volgere repentinamente alle frenesie del can can del dissacrante Orfeo all’Inferno di Off enbach. Una riscrittura importante della vicenda orfi ca è senz’altro quella (di datazione controversa, nella seconda metà del Quattrocento) attribuibile ad Agnolo Poliziano, che nella Fabula di Orfeo avrebbe realizzato la prima opera di teatro profano in volgare della nostra penisola. Dopo il fallimento del tentativo di far rivivere Euridice, Orfeo aveva preso a disprezzare il genere femminile, inneggiando agli amori con la primavera del sesso migliore (i giovinetti). In una parola, si era trasformato da cantore dell’amor soave e marito fedele in disgregatore della famiglia, incline all’amore pederotico. Conseguenza ne era stata la vendetta delle baccanti, seguaci del dio dell’ebb r e z z a (per testare la loro ferocia basta leggere le Baccanti di Euripide), che, nel coro conclusivo – un celeberrimo, orgiastico trionfo di versi sdruccioli in Poliziano – dilaniavano e smembravano il corpo dello sfortunato cantore. È questo background mitico, ricco di implicazione simboliche, che fa da sfondo all’interessantissima e pregevole installazione di Manuela Centrone “La morte di Orfeo”, esposta presso l’Outlet sino al 22 ottobre. Su questa giovane artista molfettese, dal curriculum già notevole, non siamo nuovi a soff ermarci. Ricordiamo come attualmente l’artista segua il corso di laurea in Arti Visive all’Università della Sorbona e si stia specializzando in Arte- Terapia all’Università di Medicina «R. Descartes » a Parigi. Recentissima una sua personale molfettese, “Il corpo dell’opera” in cui ha evidenziato la propria ricerca nel settore, estremamente fecondo, delle arti performative e proposto un video relativo a una performance sperimentale ispirata alla fi aba di Raperonzolo. L’installazione orfi ca gioca su tre livelli: quello letterario, nella riproduzione della fonte d’ispirazione, il luogo delle ovidiane Metamorfosi che descrive con fi abesca eff eratezza la morte del cantore; quello pittorico con evidenziazione dell’antefatto (le Baccanti scorgono Orfeo e lo additano) e la raffi gurazione del crudele banchetto; quello scultoreo, con le membra della vittima che pendono dalle labbra furenti delle Menadi e si spargono sul pavimento. L’opera della Centrone aff ascina per più ragioni. Le Baccanti, nude, appaiono totalmente in balia di un’orgiastica feritas, che le induce, uccisa la vittima sacrifi cale, a scagliarsi le une contro le altre o a degradarsi a mera animalità (una di loro pare assumere posture da aracnide). La perdita delle insegne dell’individualità appare evidente nei ‘volti senza volto’, che denotano anche quell’abdicazione al proprio ruolo sociale che colpiva la regina Agave nelle Baccanti, inducendola a sbranare il fi glio Penteo. Su di loro sembra piovere, nelle vesti di ‘colate’ di nero, la tenebra dell’ottundimento, il buio di una manìa tutt’altro che divina. Non sono donne che rivendicano la dignità del proprio status (o almeno così non ci appaiono) contro l’etero convertito all’omosessualità, ma ci sembrano più simili, per dirla come il deleddiano Efi x, a canne in balia del vento della sorte. Nell’ottundimento della ragione si è perpetrato l’annientamento della poesia. Di colui che smuoveva anche i sassi col suo canto, e che stava per vincere la Morte stessa, non restano che interiora-pupazzo che si aff astellano in terra. Senza rvedenzione. Dall’installazione di Manuela, infatti, rimane volutamente escluso l’epilogo consolatorio della leggenda, che vuole la testa di Orfeo, approdata nell’isola di Lesbo, divenire sorgente d’ispirazione per lirici come Saff o e Alceo, non di rado cantori di amori nella nostra ottica ‘diversi’ e, non a caso (specie il secondo), di dionisiache ebbrezze utili a fugare ogni melanconia.

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