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Le dimissioni di Caputo non bastano
15 novembre 2020

Gli elicotteri, all’alba, con il loro rumore inconfondibile. Assordante e cavo. A sorvolare il quartiere Ponente, appena arrivata la luce del giorno. Fino all’area del Nuovo Porto Commerciale: la cassa di colmata, le gru tornate all’opera da poche settimane, il cimitero di cemento dei tetrapodi distesi a decine sugli ultimi orti costieri nella zona di Cala San Giacomo. Poi decine di uomini della Guardia di Finanza, all’unisono, in decine di siti: le sedi comunali, gli studi privati, le case, le sedi delle imprese. Infine, una lista di nomi: il sindaco, l’assessore ai lavori pubblici, una consigliera comunale, tutti i dirigenti del Comune – tranne la neo dirigente al Welfare – il segretario comunale, i funzionari chiave del settore lavori pubblici, territorio e ragioneria. Le ditte appaltatrici ed esecutrici dei lavori. Decine anche gli appalti sotto osservazione. Le gare svolte e quelle evitate, con la scorciatoia classica dell’incarico diretto. I fondi usati, le voci di bilancio e gli impegni di spesa. Sequestrati i telefoni, i pc. Non è ben chiaro cos’altro, massimo riserbo. I mesi ci diranno, il lavoro dei magistrati – francamente straordinario – chiarirà. Ma le ipotesi di reato di quella che qualcuno chiama la nuova “appaltopoli” sono senza precedenti: turbativa d’asta, corruzione, giro di possibili mazzette in soldi e regali. Questo è quanto accade a Molfetta in queste ore. E, per quanto la Costituzione sancisca la presunzione di innocenza e il diritto di difesa per gli oltre venti indagati coinvolti, questo non significa essere obbligati al silenzio, come se l’inchiesta non esistesse e come se le dimissioni dell’assessore Mariano Caputo possano davvero mettere fine a uno scandalo sconvolgente, che segna il capolinea inevitabile dei tre anni di amministrazione di Tommaso Minervini e del carnevalesco minestrone finto-civico di forze politiche che lo accompagna. Né la Procura della Repubblica di Trani né la Guardia di Finanza di Barletta, che seguono questa inchiesta clamorosa e dolorosa, che getta un’ombra inquietante sulla politica e sulla pubblica amministrazione molfettese, possono essere arrivate agli avvisi di garanzia e alle ordinanze di sequestro senza comprovate ragioni a motivazione delle loro ipotesi. E se nessuno anticiperà sentenze di condanna fuori dalle aule di tribunale, nessun altro dovrà a sua volta pretendere assoluzioni preventive fuori discussione. Nessun tappeto sarebbe abbastanza grande per nascondere la polvere di quanto sta accadendo. E alcune domande emergono in queste ore, a cui le risposte dovranno essere trovate, senza furbizia, elusione, auto-beatificazione. Il sindaco non può chiedere alla sua città di mettere la mano sul fuoco sulla sua trasparenza e sulla sua rettitudine, come ha fatto su Facebook nelle ore immediatamente successive alla ricezione del suo avviso di garanzia. Né può giocare con gli avverbi, scommettendo sulla buona comunicazione come via di fuga dalle sue responsabilità. È indagato “unicamente” per turbativa d’asta, si legge dappertutto. Come se questo lo liberasse dall’enorme responsabilità politica di una stagione spericolata e senza freni e come se il fuoco potesse spostarsi altrettanto “unicamente” sull’assessore-espiatorio, improvvisa causa di tutti i mali. Lo stesso Super Mariano Bros magnificato dai colleghi di giunta e maggioranza, accompagnato da una fila di consiglieri, presidenti di partecipate, preti di quartiere e rappresentanti delle associazioni locali a ogni inaugurazione e taglio di nastro. “Grazie Mariano grazie”, il coro tacito che sembrava seguirlo. Quando annunciava a braccia conserte, con il fotomontaggio delle torri del Duomo alle spalle, l’apertura di un parchetto di periferia, o l’asfalto fresco su questa o quell’altra via, o il completamento della rotatoria di turno, l’avanzamento di questo o quell’altro cantiere. Una Cinecittà nostrana sempre accesa. Con le telecamere al seguito, con il sindaco “vlogger” a guardare fisso in camera e a raccontare dei tanti lavori in corso con la fierezza di un padre di bitume e di cemento. Orgoglioso del giro di soldi, di opere compiute, di promesse elettorali mantenute, a girare nella betoniera. “Fatti e non parole”, “L’amministrazione della concretezza”, fino allo slogan elettorale del consigliere Saverio Tammacco, saltatore olimpico della quaglia, insieme al sindaco e all’assessore Caputo e all’armata delle “Nuove Officine delle Idee”, che di nuovo non hanno un bel niente e di idee nemmeno. Capaci di sostenere Emiliano ieri e Fitto oggi, domani chissà. Lo chiamano “principio di realtà”. Principio chiarissimo, che rischia però una brutta fine. Li abbiamo visti moltiplicarsi, questi cantieri per le strade. Le voci del piano delle Opere Pubbliche fiorire a decine, la retina arancione dell’appalto di turno abbracciare spazi piccoli, come gli spartitraffico della zona di San Giuseppe, o enormi come via Monsignor Bello, una specie di Circo Massimo cittadino, monumento al cemento e alla malagestione. Quasi un milione di euro di cantiere avviato e poi interrotto, con ditte a darsi il cambio in una staffetta di ombre e curve cieche. Un progetto pieno di lacune, perizie di variante, spese raddoppiate e storia senza fine. Abbandono di rifiuti edili e pericolo a cielo aperto per gli abitanti del quartiere. La nuova piastra-mercato per il “giovedì” settimanale non pervenuta. Siamo rimasti in pochi a denunciare, negli anni. Dal minuto numero uno. Prima della magistratura, senza sosta e senza fiato. In consiglio comunale, sui giornali locali, in qualche assemblea, nello scantinato di qualche associazione o centro sociale. Tutto il resto, diciamolo, ha fatto silenzio. Molfetta Discute non ha discusso più. Nessuno più ha denunciato, scritto esposti, aperto comitati, organizzato “question time”. Nessuno più è andato “sotto al Comune” a battere alle porte, con gli striscioni e le catene. Silenzio, spalle strette. Talvolta, anzi, applausi e acclamazioni. Viva i cantieri, viva il sindaco. Viva il PD che non ha badato a niente. A far cadere l’amministrazione precedente, in nome della tombola dei comparti e della guerra guerreggiata al Piano Urbanistico Generale. A sostenere un’alleanza-Frankenstein con riconoscibilissimi pezzi dello storico centrodestra locale. Perché centrodestra locale erano e sono e resteranno sempre Ninnì Camporeale e Pasquale Mancini, Enzo Spadavecchia e Leo Bicò, Onofrio De Gioia e Saverio Tammacco. Ma il PD, gagliardo e tosto, non ha badato alla forma e ha pensato alla sostanza. Indisturbato, mai fermato da nessun livello nazionale, regionale, barese. Mai sfiorato dal dubbio di potersi andare a schiantare. Presidente del Consiglio del PD, presidenza della Commissione Urbanistica del PD (anche se poi Peppino De Nicolò ha anche lasciato il partito), assessorato al Lavoro e ai Fondi Europei del partito. Tutti insieme appassionatamente. Anche insieme all’assessore rinnegato, prima eroe di efficienza e poi macchia di vergogna da cancellare con la candeggina. Con tanto di comunicato stampa sulla “questione morale” del commissario locale Saverio Campanella. Una voce più che flebile inesistente in questi anni di assordante omertà. Davvero il PD di Molfetta può farci lezione di questione morale e buttare la croce sull’assessore Caputo? Come se non facesse parte di questa giunta, di questa maggioranza, di questa stagione avida e vorace, che tramonta per autodistruzione? Le dimissioni di Caputo non bastano, sindaco Minervini, consigliere Tammacco e commissario Campanella. Chi corre cade e si rompe, ci dicevano nei proverbi le nonne da bambini, preparando pane e marmellata. Siete caduti, il vaso della marmellata si è rotto, pare. Adesso andate a casa. Come sempre, i cocci di questa Molfetta svenduta e a pezzi, li raccoglierà qualcun altro. © Riproduzione riservata

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