La Questione Meridionale ancora oggi si pone in relazione a due aspetti fondamentali: quello economico e quello culturale.
Da molti anni, però, il secondo è stato da tutti trascurato, per privilegiare assolutamente il primo. Si è passati, così, dal perseguimento del mito della industrializzazione all’assistenzialismo clientelare degli anni ’70-’80, dalla sussistenza municipale, regionale ed europea, alla sciatta proposta della Destra e della Lega del ventennio berlusconiano, tesa ad affermare l’idea di un federalismo che divide, invece di quello (salveminiano, per intenderci) che unisce. Tutte ricette che hanno fallito il loro obiettivo, anche perché calate in un contesto socio-culturale inadatto a recepirle e non in grado di dar loro un supporto condiviso e scevro da furbizie e illegalità.
A questo punto, è chiaro a tutti quanto sia necessario che iniziative economiche e culturali si integrino perfettamente ed armoniosamente, per avviare un processo di reale evoluzione del Sud, capace se non di colmare la distanza che lo separa dal Nord, almeno di modernizzare il suo tessuto civile.
Da qui la necessità assoluta di impostare una nuova politica culturale per il Mezzogiorno, non intesa solo come strumento per elevare il livello di istruzione e del “consumo” di cultura, ma essenzialmente volta ad inculcare nei giovani meridionali una mentalità nuova, diversa da quella dei padri e dei nonni.
Una cultura della responsabilità e della condivisione del destino della comunità in cui si vive, della legalità e del merito, dell’uguaglianza e del rispetto delle regole. Un’iniezione di civismo che non può essere più lasciata al volontarismo di pochi ma promossa con energia e chiarezza di idee dalle istituzioni politiche e dalla scuola.
Un’impresa lunga e difficile, senza il cui compimento ogni tentativo, pur lodevole, di far evolvere nel profondo il Mezzogiorno è destinato a fallire.
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