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La guerra di Falco Salvemini e un giovane caduto
15 gennaio 2023

Il 17 maggio 1951 Gaetano Salvemini pubblicò su “Il Mondo” una appassionata recensione al volume di Biagio Marin “La traccia sul mare”, una raccolta di lettere e diari del figlio Falco, morto in guerra nel 1943, all’età di 24 anni. Biagio, nato a Grado nel 1891, fu poeta dialettale di grande sensibilità, cantò il mondo della sua isola con intensa empatia, interpretò e condivise le istanze irredentistiche dei suoi amici triestini e giuliani. Si è spento nel 1985. Salvemini coglie subito il valore della silloge, sia intrinsecamente inteso, sia soprattutto come testimonianza del travaglio di un’intera generazione. Lasciamo parlare i due protagonisti di queste pagine. Scrive il Molfettese: “Nato nel 1919, formatosi in clima fascista, Falco fu fascista. Ma fascista o non fascista, apparteneva a quelle creature che per temperamento (si direbbe: per una condanna del destino) prendono la vita sul serio e quindi non possono essere felici. Riconosce che esiste nella sua generazione una confusione di valori, dalla quale non ha ancora trovato una via d’uscita. E continuerà, povero figliuolo, fino alla fine”. Nel giugno 1940, Mussolini trascina l’Italia in una guerra sciagurata. L’attacco alla Francia fallisce miseramente, come quello alla Grecia, nell’autunno del 1940. Un anno dopo, Falco è chiamato alla scuola di allievi ufficiali di complemento. Scrive il 13 marzo 1942: “Non capisco che cosa muove i popoli a scannarsi ininterrottamente da anni: ognuno vuole muoversi in funzione di un principio egoistico, e quanto più egoista, tanto più deve dare ad una causa che astrae quasi dalla sua personalità. Il mio mondo era pensato diversamente”. Nel novembre del 1942 gli inglesi sfondano il fronte italo-tedesco a El Alamein; a gennaio del ’43, disastro italiano in Russia: ottantamila morti rimangono nella steppa ghiacciata. Alla fine di quel mese Falco, sottotenente di artiglieria, giunge a destinazione in Slovenia. La lotta è durissima, feroce: gli italiani devono contrastare i così detti ribelli, vale a dire i partigiani sloveni, in larga parte comunisti. Un alternarsi sanguinoso di sabotaggi, agguati, rappresaglie, senza prigionieri da entrambe le parti. Scrive Falco: “Gli uomini erano dominati dal terrore. Li vedevo carname, che altro non erano, e i ribelli con pochi moschetti ne facevano bersaglio, come se fossero lepri, o meglio conigli. Era il terzo giorno che non mangiavo. Gli uo-mini chiedevano: Signor tenente, munizioni, abbiamo ancora quattro caricatori! - Ancora siamo forti da poterli ammazzare tutti; ma la loro forza sta in una nostra strana perplessità”. Annota Salvemini: “Falco fa la guerra ad un popolo che si difende disperatamente contro stranieri occupatori della sua terra. Cresciuto fra Grado, Gorizia e Trieste, in un territorio di frontiera, arroventato dagli odi di italiani e slavi, è certamente di sentimenti slavofobi. Non riesce a capire che quell’uomo che se ne va nel bosco a vivere non si sa come, vuole la libertà, ma una libertà che non ha nulla da vedere con la libertà-non libertà dei sonnambuli gentiliani”. Commentando i primi dubbi di Falco, il Nostro li attribuisce al crollo del ciarpame sciovinistico e pseudo filosofico e di quella colossale montatura patriottarda sui quali il fascismo aveva costruito il suo potere, gestito da quella gerarchia di “porci, ladri ed inetti”, che per vent’anni aveva corrotto la nazione. E prosegue rivalutando la classe dirigente liberale che, pur con tutti i suoi limiti, aveva assicurato una democrazia certamente limitata, ma reale, e soprattutto era riuscita a superare, con il consenso di tutte le componenti sociali e ideali, la prova tremenda di Caporetto. Salvemini stabilisce quindi una significativa differenza tra la temperie politica e morale che connotò la prima guerra mondiale, rispetto a quella della seconda, frutto – a suo dire – della megalomania di Mussolini, e della connivenza del Savoia e della cricca militare. A mio modesto parere è questa una valutazione condivisibile, a patto di accettare che le cause profonde di entrambi i conflitti, a parte le ovvie differenze, derivano in primis dalla deriva imperialistica dello sviluppo capitalista novecentesco, e dalle sue insanabili contraddizioni. Molto schematicamente: le classi dirigenti, liberali, fasciste o neo fasciste che siano, traggono il loro potere dalla struttura economica cui soggiacciono e dalle sue dinamiche. Questa assegna loro una sorta di potere delegato, fino a quando sono in grado di amministrarlo secondo il proprio programma di dominio, che comprende anche lo scatenamento di orrendi conflitti, qualora la torta dei profitti non riesca ad essere divisa pacificamente. Ma torniamo a noi. Nel giugno del 1943 Falco va in licenza a Milano per sostenere alcuni esami al Politecnico. Trova in città un’atmosfera cupa, irreale; percepisce come la consapevolezza diffusa di una guerra ormai perduta generi nella gente inquietudine ed angoscia per l’incerto futuro. Sa che alcuni amici hanno aderito a movimenti antifascisti, ma non sa decidersi. Inoltre, ben conoscendo i disastri compiuti dal fascismo in Italia orientale, teme che “l’onda slava ricadrà verso occidente”. Gli eventi precipitano, e il giovane non ha il tempo di dare un esito positivo ai suoi dubbi e al suo travaglio interiore che potrebbe spingerlo verso qualsiasi scelta. Ricordiamo che ha solo 24 anni. Scrive il 15 luglio sul suo diario: “Mussolini, dopo aver ingannato tutti, si trova preso nella panìa ma, come accade ai carrettieri ubriachi, è caduto nel fosso con la sua vecchia carretta e col suo brocco cadente. Nella rovina ci siamo tutti, lui ladro e noi, infingardi e gonzi”. Il 25 luglio Falco muore, colpito da un proiettile in fronte. Quello stesso giorno cade il fascismo. Nell’ultima pagina della sua recensione, Salvemini dedica un splendido epicedio al giovane caduto. Si domanda, se mai non fosse morto, dove e con chi avrebbe tentato di riscattare la dignità della Nazione. Forse con coloro che combatterono per la libertà, cedendo all’illusione di cambiare il mondo? Anche se, aggiunge amaramente: “La Storia è un sepolcro di illusioni”. © Riproduzione riservata

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