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L'on. Zazzera (IDV) a Molfetta: gli armatori chiedono sempre di più, dando sempre meno ai lavoratori Assemblea all'Ipsiam di Molfetta sui problemi dei marittimi su iniziativa del Comitato Seagull
31 ottobre 2010

MOLFETTA - "Gli armatori pretendono sempre più in termini di sostegno al comparto, concedendo sempre meno ai lavoratori italiani, discriminati nell'accesso agli imbarchi rispetto a lavoratori extra comunitari, con meno tutele sul piano dei diritti sindacali". Lo dichiara l'on. Pierfelice Zazzera, deputato dell'Italia dei Valori durante una assemblea pubblica a Molfetta organizzata dal Comitato Seagull presso l'Ipsiam "Salvucci".

"Chiediamo maggiori controlli da parte delle Capitanerie di Porto e delle Ambasciate - spiega il parlamentare - sulle politiche di assunzione da parte degli armatori che speculano sull'equipaggio, imbarcando personale sottopagato o addirittura in nero. Questa situazione nasce dall'applicazione della legge navale che prevede un equipaggio composto interamente da cittadini italiani o dell'UE, ma con possibilità di deroga. Da quanto lamentato dai lavoratori marittimi italiani - prosegue Zazzera - addirittura succede che le navi, una volta raggiunte le acque internazionali, sostituiscano l'equipaggio, in beffa ai controlli delle autorità competenti e mettendo a rischio la sicurezza degli stessi lavoratori".
 
"Vista la gravità della situazione, ho chiesto al Ministro Matteoli di attivarsi per modificare le tabelle di armamento, anche costituendo un tavolo di concertazione tra i sindacati, gli armatori e il Governo. Ma la risposta è stata del tutto insoddisfacente. Il Governo infatti ha declinato ogni responsabilità sul controllo della turnazione dei marittimi, sull'applicazione della normativa in materia di orario di lavoro e sulle tabelle di armamento. Continueremo a monitorare la situazione, mettendoci a disposizione dei lavoratori".
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Viviamo in un mondo in cui il virtuosismo ha cessato di essere appannaggio di pochi eletti ed è divenuto esperienza di massa. Ciascuno è chiamato a farsi funambolico artefice della propria vita, in una sorta di bricolage biografico, quotidianamente alle prese con il rischio: nulla è più garantito su un mercato del lavoro rimodellato all'insegna della flessibilità, così come nulla può essere dato per scontato in rapporti sentimentali e familiari sempre più esposti alla possibilità di essere “disdetti”. Il presente è caratterizzato da una sorta di “morale del vagabondo”. Il vagabondo non sa per quanto tempo resterà a lungo e in ogni caso per lo più non è lui a decidere la durata della permanenza; sceglie le proprie destinazioni lungo il cammino. Ciò che lo spinge ad andarsene è la delusione per il luogo della sua ultima sosta. Oggigiorno tutto sembra congiurare contro i progetti della vita, i legami duraturi, le alleanze eterne, le identità immutabili. Non posso più contare, a lungo termine, sul posto di lavoro, sulla professione, e nemmeno sulle mie capacità; posso scommettere che il mio posto di lavoro verrà assorbito dalla razionalizzazione, la mia professione si trasformerà fino a risultare irriconoscibile, le mie competenze non saranno più richieste. In futuro, non ci si potrà nemmeno più basare sulla vita di coppia o sulla famiglia; nell'epoca di quello che Antony Giddens chiama “confluent love” si sta insieme quel tanto che basta affinchè uno dei due partner sia soddisfatto, il legame è sin dall'inizio concepito nell'ottica del “si vedrà”, il legame intenso di oggi rende ancor più violente le frustrazioni di domani.-


1° Parte.- Combinare benessere economico, coesione sociale e libertà politica è la sfida che si trovano di fronte le società del Duemila. Alcune hanno già rinunciato alla libertà individuale, altre rischiano di perdere il benessere o la coesione sociale. I paesi dell'OCSE, per dirla in modo diretto, hanno raggiunto un livello di sviluppo in cui le opportunità economiche dei loro cittadini mettono capo a scelte drammatiche. Per restare competitivi in un mercato mondiale in crescita devono prendere misure destinate a danneggiare irreparabilmente la coesione delle rispettive società civili. Se sono impreparati a prendere queste misure, devono ricorrere a restrizioni delle libertà civili e della partecipazione politica che configurano addirittura un nuovo autoritarismo. O almeno questo sembra essere il dilemma. Forse i paesi esclusi troveranno per prima una via di uscita, ma difficile che possa accadere a molti. Ci riusciranno i paesi più fortunati dell'America Latina o dell'Est europeo, impegnati come sono impegnati sui tre obiettivi dell'opportunità economica, della società civile e della libertà politica? O i paesi dell'Asia? Oppure la Cina? Per ora tutti questi paesi sono alla ricerca di una rapida crescita economica che si sposi con una robusta coesione sociale, senza preoccuparsi troppo di promuovere insieme stato di diritto e democrazia politica. Che tipo di imposizione fiscale si deve adottare per non impedire la crescita, ma anzi stimolarla? I teorici dell'economicismo – ossia coloro che erigono l'economia a ideologia politica – non solo ignorano i fattori sociali, ma li denigrano. Non è forse vero che un primo ministro, per incoraggiare gli individui a cavarsela con i propri mezzi, è arrivato a dire che “la società non esiste”? (continua)

2° Parte.- Il potere dissolvente e dissacrante delle società moderne ha alimentato il dibattito per un secolo. “Anomia, suicidio, delitto: collasso della famiglia; tramonto delle religioni. Probabilmente la ragione è, per dirla in una parola sola, “globalizzazione”. Nel nostro mondo nascondersi è diventato difficile e in molti casi impossibile. Tutte le economie sono intrecciate tra loro in un unico mercato competitivo, e nei giochi crudeli che si svolgono su questo teatro è impegnata dovunque l'intera economia. Sottrarsi a questi giochi è letteralmente impossibile, e gli effetti della globalizzazione si fanno sentire in tutti i campi della vita sociale. Che cosa significa globalizzazione? Lo scettico ha ragioni da vendere: a tutt'oggi la globalizzazione è ben lungi dall'essere totale. Intere economie, tra cui quella cinese, sono più nazionali che globali (anche se una parte del loro successo è legato nel mercato globale). Perché si è imposta la globalizzazione? Non è chiaro se la fine della guerra fredda sia la causa o l'effetto. Una ragione è stata che il concetto di “paese o di “nazione ha perso buona parte del suo significato. Non esiste un'unica cultura economica, nemmeno all'interno delle economie di mercato. Il Giappone è diverso dall'America e la Germania dal regno Unito. Che cosa devono fare le aziende, paesi o regioni di ogni parte del mondo, se non vogliono condannarsi all'arretratezza e alla povertà? Gli attori economici hanno bisogno soprattutto di flessibilità, per usare una parola oggi di moda. Con tale termine si vuole intendere qualcosa di desiderabile, ma per molti esso descrive il prezzo da pagare. In assenza di un grado notevole di flessibilità, le aziende non possono sopravvivere nel mercato mondiale. (continua)

(1°parte)- La globalizzazione, è bene ricordarlo è una forma estrema di capitalismo che non ha più alcun contrappeso. La lotta di classe dunque scompare non tanto perché i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori siano diventati pacifici, ma perché i conflitti si sono spostati dai problemi interni della produzione alle strategie mondiali delle imprese transazionali e delle reti finanziarie. Anche il movimento ecologista si trova in una situazione analoga; difende la natura, la terra, attacca coloro che distruggono l'ambiente e propugna l'idea di uno sviluppo sostenibile, ovvero sostiene gli interessi di coloro che sono troppo lontani, nello spazio o nel tempo, per far sentire la propria voce. Ma si scontra con la resistenza degli Stati e ha ottenuto solo risultati limitati. Quando si parla di globalizzazione, è necessario introdurre categorie generali, e quella di classe non lo è abbastanza. Peraltro è più frequente sentir parlare di umanità e di generazioni future o di nazioni povere piuttosto che di una categoria sociale definita. La novità è dovuta al fatto che a essere in competizione tra loro non sono più paesi tra loro paragonabili, come avveniva quando la Gran Bretagna, la Germania, gli Stati Uniti o la Francia si facevano concorrenza e stringevano accordi economici e politici di apertura dei mercati, ma paesi più ricchi, più o meno “socialdemocratici”, e paesi in cui i salari sono più bassi e i sindacati inesistenti ( e dove, all'occorrenza, è disponibile un vasto bacino di lavoro forzato). Finora è stato impossibile coordinare le politiche sociali e fiscali all'interno dell'Unione europea. E' un nuovo elemento con cui bisogna fare i conti. Sarebbe vano credere che si possano erigere barriere intorno a un'economia nazionale. Una tale politica avrebbe – come ha già avuto in passato – conseguenze estremamente negative. (segue)
(2° parte)- Gli interventi dello Stato non devono più servire a mantenere in vita imprese non competitive o a fornire garanzie a determinare categorie sociali per ragioni politiche e contrarie a ogni razionalità economica. La resistenza dei paesi europei di fronte a questa trasformazione è notevole, ma si affievolisce col tempo. Il problema più importante consiste nella ricerca di una nuova modalità di intervento politico che non arrechi danno alla competitività, ma, allo stesso tempo, protegga la popolazione dal brutale, incontrollato espandersi di una economia liberale sulla quale la maggior parte dei paesi non ha alcuna possibilità di intervento. La difficoltà propriamente politica di questo problema è dimostrata dal fatto che molti governi, in non pochi paesi, hanno visto tutti i loro tentativi fallire. Per i governi la difficoltà aumenta al momento di elaborare interventi a sostegno degli individui più colpiti o sfiancati a seguito di aggressioni ripetute, e di chi non riesce più a trovare un lavoro adeguato. E dato che la protezione sociale va rinforzata al pari della lotta contro le disuguaglianze, è difficile determinare in astratto fino a che punto si potrà intervenire sul bilancio di fronte a una popolazione che aspira a misurare i progressi ottenuti. Chi ritiene questi compiti troppo difficili, e auspica che lo Stato si accontenti di fornire aiuti a coloro chegià li ottengono, porta il proprio paese alla rovina. Né il mantenimento dell'attuale Stato- provvidenza né l'accettazione di un liberismo senza limiti rappresentano una soluzione. Solo il rinnovamento delle nostre idee sulla società e sulle sue trasformazioni può consentirci di mettere a punto le politiche sociali che ci permetteranno di superare lo Stato-provvidenza, modificando i suoi obiettivi me soprattutto le nostre modalità di intervento pubblico. (Tratto da: La globalizzazione e la fine del sociale – Alain Tourine.)



C'è stato un tempo, nei primi secoli della nostra modernità, in cui ragionavamo in termini politici; pensavamo e descrivevano il mondo in base alle categorie di ordine e disordine, potere e stato, Repubblica e popolo. Dopo la rivoluzione industriale abbiamo sostituito le categorie politiche con quelle sociali ed economiche di classe e ricchezza, borghesia e proletariato, sindacato e scioperi, disuguaglianza e ridistribuzioni. Ma oggi? Decenni di globalizzazione hanno imposto criteri di valutazione quasi esclusivamente economici, che hanno portato al trionfo di un individualismo disgregatore. I sintomi si leggono ovunque: nella guerra, che ha perso il suo significato politico o sociale, nelle ondate di irrazionalismo, nella crisi degli individui, pieni di problemi e impossibilitati ad affidarsi alle istituzioni, per risolverli, alle istituzioni civili e giuridiche tradizionali. Aleggia la sensazione che il vecchio mondo sia andato in frantumi e che niente possa sostituirlo. Per sfuggire all'immagine di un mondo come prigione e alla sensazione angosciante della totale perdita di significato, si avverte il bisogno di nuove categorie, categorie non più sociali ma culturali, perché è in questi termini che i cittadini di oggi costruiscono le proprie identità: sulle particolarità sessuali, etniche, religiose, laiche o ecologiste. Ci poniamo domande che un tempo sembravano incongrue: sono felice? Faccio davvero quello che mi piace? Sono certo di sapere se in questo momento si stanno verificando eventi intollerabili o se viene perpetrata un'ingiustizia? L'individualismo imposto dalla globalizzazione ha sradicato i movimenti di massa e ha reso inservibili le categorie politiche e sociali con cui pensavamo noi stessi e gli altri: se le grandi narrazioni collettive sono finite, la vita del soggetto acquista la stessa drammaticità del mondo. Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma per capire il presente e, soprattutto, per rivendicare i nostri diritti.



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