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L'industria molfettese nella seconda metà degli anni Sessanta
15 giugno 2006

I dati, che seguono, furono raccolti dal gruppo molfettese del Movimento di Collaborazione Civica, un'organizzazione nazionale, più spiccatamente meridionale, dedita come dice il nome ad azione civile e culturale. L'azione del MCC e d'altri gruppi giovanili e il fervore delle iniziative culturali nella Molfetta presessantottina, nate come prodotti e risposte al neonato centro-sinistra e al concilio, sono degni di considerazione, ma li rinvio ad un'eventuale trattazione successiva. Qui mi limito a riferire che tra le azioni del MCC furono un confronto tra i segretari delle sezioni giovanili dei partiti in un momento, in cui insistentemente si parlava di “crisi dei partiti” (ed era invece la fine della trasmissione dell'entusiasmo resistenziale ai giovani), e un'inchiesta sull'industria locale. Era il 66, mancavano due anni alla rivolta studentesca e tre alla protesta operaia (“autunno caldo”). Il “sessantotto” diede una risposta alla “crisi dei partiti” e l'autunno caldo alla condizione operaia, ma a Molfetta gli operai (e l'industria) avevano problemi di sopravvivenza dell'occupazione (e della produzione) più che di contratti di lavoro. Inizio questa esposizione dalla FI. DI MI. RA., la fabbrica dei FIgli DI MIchele RAnieri, con cui conclusi lo scritto precedente e che era situata sulla via per Bisceglie nel capannone, dove ora è allogata la fabbrica di Jeannot, di fronte al quartiere Madonna dei Martiri, che 1966 era sorto da poco. La fabbrica tessile aveva avuto negli anni cinquanta una vitalità sottolineata da tipiche produzioni, di cui molto famosa fu quella dei materassi: “il traliccio Tre Campane”. La propaganda di questo era affidata anche ad una filastrocca, che riferisco, dopo averla recuperata con la mediazione del rag. Domenico Balsamo dalla memoria di persone della famiglia impresaria: “Tutto è pronto, tutto è a posto, ma la sposa ancor sospira: Voglio, voglio ad ogni costo il traliccio FI.DI.MI.RA.” Su tal industria non trovo registrato alcun dato: segno che la sua vicenda produttiva era conclusa. Una produzione notevole conservava il pastificio Maldarelli, sito sulla via per Giovinazzo alla svolta della strada dopo Lama Cupa. Il titolare s'era reso celebre in ambito culturale per un dizionario del dialetto giovinazzese, stampato nella tipografia dell'Apicella e presto scomparso dal mercato con disperazione del glottologo Tagliavini. Ebbe ragione di gongolare il professor Michele Melillo, docente universitario di dialettologia a Bari (e preside del Liceo Lanza a Foggia), dopo che gli ebbi procurato una copia per grazia del rag. Ciulli, economo dell'Apicella. Al tempo dell'inchiesta Maldarelli dava lavoro a 40 operai e 12 apprendisti, gli uni e gli altri provenienti per i tre quarti da Molfetta. Fu precisato dall'informatore che i tre quarti degli apprendisti erano donne. Il pastificio produceva quotidianamente 25 quintali di pasta per un mercato solo nazionale. Nell'ambito alimentare operava un'altra industria (“Oleifici dell'Italia Meridionale”), posta poco fuori del recinto ferroviario, dove ora sorgono i cosiddetti “palazzi bianchi” (edifici sulle vie Deledda, Serao e Pirandello). La fabbrica lavorava la sansa per l'estrazione dell'olio appunto di sansa. Ma, essendo la produzione legata alla stagione olearia, gli operai non fruivano della stabilità d'impiego e di reddito. Anche qui i lavoratori provenivano da Molfetta nella quasi totalità (tolto il 2 per cento), ma lavoravano tutto l'anno solo gli otto operai specializzati, addetti alla revisione annuale delle macchine e alla preparazione dell'impianto per il nuovo ciclo estrattivo. I residenti in loco avevano probabilità di conferma nella stagione successiva. Al momento più intenso della lavorazione l'occupazione di mano d'opera era vicina alle cento unità. Nella stagione erano lavorati 100-150 mila q.li di sanse vergini con un prodotto giornaliero di 2 mila q.li d'olio. La sansa esausta era veduta come combustibile alle fornaci locali. Le restanti fabbriche erano collegate all'attività edilizia per la nota “fame di case” della città marinara e migratoria. In questo settore la situazione era problematica. Alcuni informatori non gradirono l'inchiesta e diedero poche risposte: il marmificio “Pimaco” rese noto solo che dei suoi dieci operai sei erano molfettesi e che il mercato era nella provincia di Bari. Anche dal “Cementificio Gallo” parsimonia di notizie: solo il numero degli operai (15). Nell'ambito delle materie edilizie era comune la lagnanza circa la concorrenza: per il “Laterificio L'Ardito” (Gambardella), il cui nome indica la provenienza storica (dal fascismo) e che era sito sulla via di Giovinazzo, erano temibili le nuove fabbriche di laterizi di Spinazzola, Terlizzi, Brindisi, Galatina ed altre nel foggiano; al “Cementificio De Gennaro” davano ombra le cementerie di Barletta, Rionero, Modugno e Taranto. Comune anche l'accusa ai costruttori locali di preferire i prodotti esterni: al “Laterificio Messina” si lamentarono della domanda molfettese (orientata alle tegole di “tipo marsigliese”) inferiore a quella modugnese e volta alle fornaci abruzzesi per convenienza di prezzi. Sicché il mercato del laterificio era costituito per il 40-45 per cento da Bari e provincia. Quello delle tegole (del tipo “a filo diritto”) era in provincia di Cosenza, il territorio della Sila in particolare. Il “Cementificio De Gennaro” trovava il mercato in Puglia e Lucania entro il tracciato delle linee tra Foggia, Gioia del Colle e Rionero in Vulture. La domanda gioiese era la più elevata. Anche “L'Ardito” si lagnò della scarsa domanda molfettese. A proposito della stessa fabbrica bisogna aggiungere che l'intervistato parlò di numero d'operai eccessivo (da ridurre quindi) rispetto al momento produttivo e all'arretratezza degl'impianti. Messina fornì un quadro eloquente della “crisi” molfettese con dati di confronto ed individuazione di causa. Il mio collocutore indicò un primo fattore di debolezza nel carattere stagionale (maggio-settembre) dell'edificazione e per conseguenza della produzione. Il confronto che Messina attuò riguardò: nella produzione giornaliera il prodotto medio effettivo (900-1000 q.li) rispetto alla capacità produttiva degl'impianti (1500-1600 q.li); nella produzione globale il periodo fino al 1963, superiore per il 35-40 per cento all'ultimo trienno (1963-66); nel monte orario settimanale le 60 ore del periodo precedente il 1963 rispetto alle 48 ore dell' ultima estate (1966). Messina, denunciando la crisi edilizia dell'ultimo triennio (alla data limite dell'estate 66), le diede un fondamento politico (amministrazione comunale). De Gennaro denunciò una produzione quotidiana di 1500-1600 q.li, pur se la subordinò al variare delle stagioni, della domanda e del tipo di cemento. Quanto al numero dei lavoratori De Gennaro dopo Pimaco e Gallo aveva il numero più basso: 20 operai molfettesi per lo più (11) meccanici. Erano compresi due portieri. La ditta “Calci e manufatti di cemento del Mezzogiorno” in territorio di Giovinazzo trovava i suoi clienti perfino all'estero, non a Molfetta. Tuttavia gran parte del prodotto (mediamente 1040-1050 q.li quotidiani) era venduta in Calabria e provincia di Bari (con qualche altro luogo della Puglia). La sua forza lavoro tra cava e fabbrica era costituita da 26 operai: 17 molfettesi, 6 biscegliesi, 3 terlizzesi. Sembra la più cospicua presenza di biscegliesi. Elevata la mano d'opera di Messina: 108, tutti del luogo, tranne 2 terlizzesi e 2 giovinazzesi. Legate all'edilizia sembrano le commesse alla fonderia “Palberti”: qui 20 molfettesi producevano 1000 q.li di fusione al mese per materiale igienico-sanitario di ghisa per costruzioni. Il “Catenificio Sallustio” fornì la sola notizia del numero dei lavoratori: 25-26 operai. Nonostante la denunciata arretratezza degl'impianti, nella fabbrica “L'Ardito” lavoravano 70-80 operai, di cui solo 4 o 5 non molfettesi, per una produzione giornaliera di 600 q.li di cotto. Il suo mercato di mattoni era nella provincia di Bari, delle tegole nelle tre regioni peninsulari estreme (Puglia, Lucania e Calabria). D'attività in ribasso si parlò anche da “Pansini Legnami”, dita operante in ambito edilizio: qui, a parte gli 8 impiegati, 20 operai producevano ormai solo serrande avvolgibili. Se si rileva che l'industria della leggendaria “Manchester” pugliese era quarant'anni or sono ridotta quasi alla sola edilizia, più grave appare la responsabilità delle successive amministrazioni comunali che bloccarono quell'attività. A maggior ragione la generale rinascita in atto esige attenti, diligenti ed intelligenti governi della città.
Autore: Antonio Balsamo
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