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L'artista Giulio Cozzoli un antimodernista “l'uomo che ride”
15 dicembre 2015

È stata inaugurata in data 21 novembre, e resterà aperta al pubblico presso il locale Museo Diocesano sino al 31 gennaio 2016, l’esposizione L’uomo che ride. Illozoc Oiluig, ovvero Giulio Cozzoli antimodernista, organizzata dal Museo in collaborazione con la Coop.FeArT, con il supporto tecnico della ditta Omphalos e il patrocinio del Comune di Molfetta. L’allestimento è stato realizzato grazie al contributo scientifico del professor Gaetano Mongelli e alla concessione dell’opere da parte di Antonietta Cozzoli e della famiglia; è stato prodotto un catalogo, edito per i tipi della Nuova Mezzina, con le fotografie di Cosmo Mario Andriani e la grafica di Michele Digregorio (al prodotto hanno collaborato Paola de Pinto, Maria Grazia La Forgia, Onofrio Grieco, Vincenzo Virgilio e Roberto Sciancalepore, de “L’Obiettivo”). Il contributo del professor Mongelli in catalogo è preceduto da una dedica a Mons. Domenico Amato, recentemente scomparso e rimpianto dalla cittadinanza. L’esposizione presenta al pubblico molfettese venti opere, ripartite tra oli su tavola e disegni, prevalentemente a carboncino e biacca o carboncino e sanguigna su carta (ma anche sculture in terracotta). Di sapore modernista, esse furono realizzate dall’artista tra il 1953 e il 1955, con lo pseudonimo - ch’è poi un anagramma - di Illozoc Oiluig (o di Colizzo). Il dichiarato intento del Cozzoli era quello di dimostrare di essere in grado di realizzare opere in linea con le tendenze artistiche più à la page, ma che probabilmente i cultori delle sorti moderne e progressive dell’estetica, invece, non sarebbero mai riusciti a scolpire figure di classica perfezione come quelle ch’egli realizzava. La presentazione dell’allestimento è stata preceduta dagli interventi di don Michele Amorosini (autore di un raffinato contributo all’interno del catalogo), che ha rimarcato come le opere ‘futuriste’ di Cozzoli rappresentino una “sfida lanciata agli artisti moderni”, “per rivendicare l’attualità senza tempo dello stile classico”, e dell’assessore Betta Mongelli, che ha ricordato con commozione e orgoglio il legame tra l’artista molfettese e Michele Romano, da cui Cozzoli apprese le prime nozioni di disegno. L’Assessore alla Cultura ha ribadito quanto Cozzoli rappresenti “l’icona della città; l’artista ch’è nel patrimonio genetico di Molfetta”, legato com’è ai “nostri riti devozionali” e ai “monumenti solenni”. A seguire l’intervento del professor Gaetano Mongelli, prestigioso storico dell’arte e docente presso l’Università degli Studi di Bari, che, con la consueta maestria, ha offerto al pubblico un affresco del panorama artistico internazionale nel quale si inscrive l’esperienza di Giulio Cozzoli. Con perizia nel rinsaldare il microcontesto molfettese ai macrofenomeni dell’Italia, ma anche della cultura francese e della riflessione estetica tedesca, Mongelli ha pennellato uno struggente ritratto del maestro molfettese in quel torno d’anni. Dopo aver respirato l’atmosfera danubiana, per poi passare da Passau a München, assorbendo e mellificando la teoria della forma di von Hildebrand, con riflessi della Einfühlungstheorie (Teoria dell’empatia), dopo aver coltivato speranze legittime per un’adeguata collocazione del proprio testamento spirituale (la splendida Deposizione, che ancora attende più consona valorizzazione), il Maestro appariva deluso. Un contributo notevole a questo senso di scoramento era anche imputabile all’esito negativo del certame per il Monumento a Umberto Giordano, “da realizzarsi a soli sette anni dalla morte del compositore, indetto dalla città di Foggia e presieduto dal suo Sindaco, l’avvocato Giuseppe Pepe”. La commissione giudicatrice aveva infatti individuato come vincitore Romano Vio, artefice del progetto che avrebbe conosciuto realizzazione in piazza Lanza. Quel Cozzoli che Mongelli ha ritratto ci sembra molto vicino all’ultimo Verga, amareggiato per la fredda accoglienza del suo capolavoro, I Malavoglia, e tutto compreso nella consapevolezza della propria grandezza artistica non adeguatamente riconosciuta. Nacquero così queste prove, che ammiccano a quanto si era prodotto e si andava producendo a Parigi come in Italia; realizzazioni in cui – come ben evidenzia Mongelli – Cozzoli indossa la Narrenkappe, si fa uomo che ride, avvalendosi del “cappuccio dei giullari rinascimentali sotto la cui protezione il buffone di corte rimaneva impunito”. Eppure “il vigore strutturale”, il “ductus disegnativo”, il “largo respiro” di questi disegni e di questi oli “non lasciano dubbi sulla paternità delle opere” e le connotano su un piano di dignità e pregio a livello estetico. Così, visitando l’allestimento, gustiamo e sorridiamo dei visi ghignanti, delle deformazioni geometrizzanti dei lineamenti di Einstein o di Sigmund Freud, in barba agli automatismi psichici. Ammiriamo la maestria nel delineare un’estetica del brutto, che affiora nella Naiade “incagnata”, dalle chiome medusee (o forse leonine?) che dialogano con i cromatismi del piano d’appoggio. Quel Plenilunio dal collo parmigianineggiante, prima che modiglianeggiante, ha una sua grazia assorta; il Satanasso in rosso assurge a inno alla potenza dissacrante di quel riso con cui Illozoc sbeffeggia l’osservatore ingenuo. Nelle figure muliebri in movimento, che irridono i dinamismi futuristi, come nelle Pomone à la Maillol vi sono eleganza di linee e innegabile pregio del disegno. Dove si dovrebbe celebrare il trionfo del disarmonico, ecco che improvvisa si rivela l’Armonia. Traspare così con evidenza l’indole di un Maestro, che, anche quando ha cercato di rappresentare il Brutto, ha finito col produrre bellezza, proprio come la protagonista di una fiaba di Perrault, dalla cui bocca, in virtù di un magico dono, sgorgavano incessantemente rose e diamanti. 

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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