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Introduzione alle carte di Gaetano Salvemini (II parte)
15 dicembre 2013

Le lettere poi, mi sembrano forse più interessanti della tesi. Di Salvemini ci sono 19 lettere e 25 cartoline postali, in tutto 44 pezzi. Le mie lettere sono 40, più 2 cartoline, in tutto 42 pezzi. Ci sono così una ottantina di missive, alcune anche piuttosto lunghe. Non ho voluto fare una selezione, perché vorrei che chi le leggerà, possa utilizzarle secondo i propri criteri. Per prima cosa ho ordinato il materiale secondo le date; le lettere di Salvemini sono intervallate dalle mie risposte o domande. Ho cercato di definire le tematiche: ci sono i consigli metodologici terra terra, cioè come scrivere la bibliografia, come sottolineare ecc., tutte cose che avrei già dovuto imparare alla scuola superiore e che nessuno mi aveva insegnato. Poi ci sono le larghe aperture culturali sui problemi di storia economica. Intanto, mentre Salvemini seguiva il mio lavoro, erano in corso pubblicazioni di suoi scritti che ormai erano introvabili. Infatti venti anni di dittatura avevano eliminato dalla circolazione tutte le pubblicazioni di quel “fuoruscito”. Questo termine a noi non fa impressione, ma durante il fascismo era pronunciato con una forte carica dispregiativa: “fuoruscito” equivaleva a “traditore” e “nemico della Patria”. Inoltre le idee correnti degli anni ‘50, erano in forte contrasto con la scuola salveminiana, basata sul “concreto” e sulla ricerca rigorosa delle notizie. Gli studi storici erano, a quel tempo, o in chiave idealistica, o di corrente marxista o di tipo spiritualistico. Salvemini sembrava veramente, secondo la sua definizione, “un masso erratico, lasciato sul terreno quando il ghiacciaio si era ritirato”. Egli portava avanti il proprio lavoro su due fronti: mentre porgeva aiuto, (e che aiuto!) ad un allievo, preparava collaboratori per le sue ricerche, cercava, cioè, quelli da lui chiamati “i caporali e i sergenti”, che al tempo di Napoleone rappresentavano la parte migliore dell’esercito. Nelle lettere successive al mio esame di laurea, infatti, mi si chiedevano notizie sull’economia molfettese, notizie che venivano richieste anche ad altri, per un confronto. Gli altri suoi collaboratori erano Sergio Azzollini, Nicola Altamura, Giacinto Panunzio, Corrado Visaggio, Alessandro Guidati, Beniamino Finocchiaro e poi tanti altri che Giovanni conosceva. Salvemini si rendeva conto che la Costituzione, frutto di tanti sacrifici, poteva ridursi solo a un pezzo di carta, se non veniva affiancata da una intensa opera di “educazione alla democrazia”. Questa era la preoccupazione anche di uomini a lui vicini, come Tommaso Fiore, Ernesto Rossi, Aldo Capitini, Piero Calamandrei, Carlo Levi e tanti altri del disciolto Partito d’Azione. Ricordo quello che diceva Ferruccio Parri, a proposito del lavoro da fare urgentemente: c’era da impegnarsi il più possibile per una “nuova Resistenza”. Bisognava preparare una classe dirigente, paese per paese; indipendentemente dai partiti, formare cittadini responsabili e competenti. Erano le idee di Carlo Cattaneo, a cui il maestro si ispirava: “sulla cosa pubblica, i cittadini devono tenerci sopra le mani!”. Molfetta era una specie di “laboratorio politico-sociale” per Salvemini. Sul posto c’era ancora un piccolo gruppo di persone, che durante il fascismo erano rimaste fedeli alle sue idee. Perciò queste carte possono servire come “materiale preparatorio costruttivo” per scrivere la storia di quella rete di collaboratori, legati con fili sottilissimi, ma tenaci, capaci di essere parte attiva nelle decisioni che si prendevano a livello locale. Per i pensatori a cui accennavo prima, infatti, era il Comune il centro più importante della vita associativa e politica. Salvemini aveva già detto, al suo arrivo dagli Stati Uniti, nel 1947, che in un paese libero, oltre ai partiti, erano necessarie molte e numerose ‘squadre volanti’ di cittadini, estranee alle organizzazioni tradizionali, che spostandosi di qua e di là, secondo i tempi e le circostanze, dessero la vittoria a un partito piuttosto che ad un altro. A me vengono subito in mente le Leghe per il divorzio e per l’aborto. Egli aveva delle idee molto chiare su come impostare una corretta azione politica. Innanzitutto i futuri dirigenti dovevano effettuare una accuratissima raccolta di dati su uno o più determinati problemi locali. Quindi era necessaria una buona preparazione tecnica di base. Poi erano per lui importantissimi i rapporti personali tra coloro che volevano portare avanti i progetti politici da realizzare: stima e fiducia reciproca erano indispensabili per non finire nelle “beghe da pollaio” a cui purtroppo assistiamo quotidianamente. Tutti coloro che sono venuti a contatto con lui, hanno potuto sperimentare che non si tratta di utopie, ma di procedure possibili che danno buoni frutti. Ricordo ciò che è avvenuto a Molfetta nel 1963. Beppe Patrono di Brindisi, uno dei più colti seguaci del pensiero salveminiano, fece una proposta, in una affollatissima riunione tenuta nella biblioteca comunale. Era un periodo fervido di iniziative, agitazioni, comunità di base e altro ancora, che preparavano quello che fu poi il ’68. Patrono chiese quale fosse il problema locale più urgente. Venne fuori che era quello della casa. A quel tempo,infatti, si stava varando la 167 e le nuove costruzioni erano poche. Una cinquantina di persone (io pensavo che anche solo cinque bastavano) dovevano incontrarsi periodicamente, per studiare il “problema casa”. Avrebbero impiegato un anno, due anni o più per consultare ingegneri, economisti, legali, urbanisti, idraulici e quanti altri fossero addetti alle costruzioni. Alla fine del loro lavoro, che avrebbe richiesto impegno, pazienza e determinazione, avrebbero chiamato gli amministratori a relazionare sulle loro proposte e sulle loro scelte, in una pubblica assemblea. Gli amministratori non avrebbero potuto raccontare le solite chiacchiere, di fronte a cittadini così preparati. Oggi probabilmente non tutti se la sentirebbero di portare avanti un programma così impegnativo, però chissà che da questo sfasciume odierno non possa venire fuori una nuova categoria di cittadini, capace di cambiare il corso delle cose. Questa si chiama “democrazia dal basso” o “democrazia partecipata”. A quel tempo, la proposta entusiasmò molti dei presenti, ma, come al solito, non se ne fece nulla, perché è più comodo dire: “ci pensa papà”. L’idea, comunque, è ancora valida ed esemplifica efficacemente quello che Salvemini intendeva per “lavoro politico”. Alla fine della tesi, egli mi scrisse alcune parole che mi sono rimaste impresse: “Questo è il fenomeno più doloroso in tutto il Mezzogiorno, l’incapacità a cooperare liberamente. Meglio essere sfruttati, che unire le forze per liberarsi dallo sfruttamento”. Come pure non posso dimenticare il grido accorato del suo discepolo di Altamura, Tommaso Fiore: “Che vi costa collegarvi?!”. Molte cose ho imparato da così tanto maestro e ringrazio chi me lo ha fatto conoscere. Nel considerare lo stato miserevole della scuola e il disorientamento, a dir poco, delle giovani generazioni, non posso fare a meno di pensare alle manchevolezze degli uomini democratici, la famosa “politica che non fu fatta”. Ai miei tempi, durante il ventennio, c’era una materia scolastica, molto importante: la “Cultura fascista”. Oggi sarebbe l’Educazione civica. Ma allora gli insegnanti, sin dalle elementari, erano costretti a fare sul serio. Noi, per esempio, studiavamo come si erano formati i Fasci di combattimento, e tutta la storia successiva, poi tutta la storia della dinastia sabauda. I canti, il giuramento di fedeltà e obbedienza al Duce e cose del genere, oltre le feste e le parate, tenevano ben desta l’attenzione delle giovani generazioni. C’erano poi i compiti in classe e a casa, in cui dovevamo commentare i discorsi del Duce. Ve l’immaginate voi che oggi si chieda agli scolari di commentare i discorsi del Presidente della Repubblica? Era una grande operazione capillare di propaganda e di indottrinamento. Non sto certo rimpiangendo i vecchi tempi, ma ritengo giusto citare il detto evangelico: “i figli delle tenebre sono più accorti dei figli della luce”! Ma torniamo alle nostre carte: L’ultima lettera è per me una delle più importanti. E’ scritta solo pochi mesi prima della morte del maestro, egli non ha potuto vergarla di sua mano, ma la ha firmata. Non riguarda gli studi, ma un problema molto personale: il controllo delle nascite. Come sono cambiati i tempi! Dopo la seconda figlia, avuta a distanza di un anno dalla prima, Salvemini mi mandò un librino di Berneri e Zaccaria, intitolato “Il controllo delle nascite”, con tutte le informazioni al riguardo. Devo confessare che, sul momento, la cosa mi urtò un poco, anche se capii dopo che non era una provocazione, ma una mano di aiuto. L’argomento era allora molto dolorosamente sentito, ma non se ne poteva parlare apertamente. Su “La Stampa” di Torino, che noi seguivamo, c’era una rubrica di lettere al Direttore, “Specchio dei tempi”, in cui questo argomento era molto discusso. Erano gli anni della grande emigrazione meridionale verso la Fiat e le famiglie del sud si portavano dietro un bel numero di bambini, proprio come fanno oggi gli extracomunitari. In una lettera al giornale, una signora si lamentava della ipocrisia di molti cattolici che, con appena un figlio o due, criticavano le famiglie numerose degli immigrati, mentre dai pulpiti si predicava “crescete e moltiplicatevi”. In una altra lettera una donna raccontava che, per avere l’assoluzione nella confessione, pur avendo già quattro figli, aveva detto che non faceva nulla per impedire una nuova gravidanza e poi aveva confessato che “diceva qualche bugia”! Ero proprio indignata! A quali storture mentali ci avevano ridotto! Oggi ridiamo di questi argomenti, ma chi è vissuto a quei tempi ricorderà le crisi di coscienza di molte persone sensibili. Allora feci una raccolta di queste lettere e di altre sullo stesso tema e le spedii a Salvemini. Mi rispose ponendo innanzitutto il problema sul piano storico ed anche su quello suo personale; disse, infatti, che quando sentì parlare la prima volta di “controllo delle nascite”, “si ribellò”. Poi, ricordava che anche pronunciarsi contro il potere temporale dei Papi, era “peccato” a fine ‘800. Inoltre nel Massachusetts, dove la percentuale di cattolici era più alta che negli altri Paesi, le nascite erano inferiori alla media. Quindi quegli americani non consideravano “peccato” controllare il numero dei figli e non lo confessavano più. (E’ quello che oggi osserviamo in Italia).E infine, (ed era l’argomento più probante) Pio XII aveva ammesso il metodo giapponese di Ogino-Knaus, ma non altri metodi. Era una svolta di notevole portata nella dottrina della Chiesa. Infatti era stato infranto quel principio che pareva inoppugnabile, cioè che si potesse desiderare un rapporto sessuale, senza l’intenzione di avere figli. Perciò il problema era diventato un problema tecnico e non di principio. Salvemini ricordava poi che ognuno deve decidere per conto suo, se commette peccato o no. Era per me una lezione di responsabilità e di rispetto della coscienza individuale, lezione che, in quel periodo, mi fece capire molte cose della vita della Chiesa e mi permise di superare molti formalismi ed idee preconcette. Questa, come dicevo, fu l’ultima lettera, datata 13 maggio 1957. Il 6 settembre successivo avemmo la notizia della sua morte. Negli ultimi mesi stava soffrendo molto e la morte fu per lui una liberazione, anche se per noi fu una perdita. Quest’ultima lettera ebbe poi un’altra storia, che vale la pena di ricordare. Nei primi anni ’70, venne a Molfetta Aldo Falivena, giornalista della Rai, per girare un documentario su Salvemini. Dopo aver intervistato Beniamino Finocchiaro e altri amici salveminiani, capitò in casa nostra, a Via Marconi, per filmare l’abitazione dove il Nostro era solito soggiornare durante le campagne elettorali. Il nonno di Giovanni, infatti, lo aiutava largamente, fornendogli i mezzi di trasporto e quant’altro gli servisse. Giovanni venne intervistato sulle campagne elettorali del ‘13 e del ‘19 e poi Falivena volle vedere gli autografi salveminiani in nostro possesso. Quando seppe della lettera sul “controllo delle nascite”, si interessò moltissimo. Infatti, all’ingresso del paese, era stato colpito da due immagini emblematiche: uno scafo di legno del cantiere navale, che era ancora in lavorazione e si presentava, bellissimo, come il simbolo della vocazione marinara della città e una donna, lì vicino, incinta, con un bambino in braccio e altri tre o quattro marmocchi attaccati alle sue gonne. Gli era parso di vedere, in sintesi, la caratteristica di quel paese, per il quale Salvemini aveva profuso tante energie. Ma c’era un “ma”. Il giornalista era convinto che, se avesse riportato per intero quella lettera, la censura televisiva l’avrebbe cancellata. Quelli erano i tempi allora! Oggi ridiamo della cosa, ma la situazione era quella! Noi ci opponemmo decisamente all’idea di tagliare alcuni pezzi della missiva: o tutta o niente. Falivena disse che si poteva tentare di “far passare” l’argomento in televisione, ma non poteva promettere niente. Facemmo l’intervista: io avevo un microfono al collo, sotto il vestito. Quando vedemmo il documentario in televisione, l’intervista a Giovanni c’era, la mia no. Falivena ci fece sapere che c’era stato un problema tecnico, per il fruscìo della sottoveste. Giovanni commentò: “Quello era un fruscìo che veniva da oltretevere!

Autore: Liliana Gadaleta Minervini
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