In ricordo di Antonio Nuovo pittore schivo dall'animo poetico
Giunto a tre quarti del suo corso, il 2008 si è dimostrato un annus horribilis per la gloriosa vecchia guardia molfettese, portando via con sé illustri personaggi della vita culturale cittadina, figure che hanno dato lustro a Molfetta negli svariati settori, in cui si estrinseca l'attività intellettuale. Così, il 29 giugno, nell'atmosfera satura di quel caldo surreale che ormai connota le nostre estati, se n'è andato senza clamore, lontano dal frastuono che pullula spesso anche negli angoli di questa città, il pittore Antonio Nuovo. L'avevo conosciuto personalmente, un po' per l'amicizia di vecchia data che lo legava a mio zio Lorenzo, un po' complice un'intervista che il pittore mi aveva gentilmente concesso nell'aprile 2003 per “Luce e Vita”, nell'ambito di un'inchiesta sul panorama artistico molfettese. In un primo momento aveva destato in me un timore reverenziale quella sua apparenza burbera, che però subito ho inteso, conquistato dalla sua gentilezza, non essere altro che una delle innumerevoli sfaccettature di quel concetto dagli antichi definito “gravitas”. Un ideale in cui confluiscono svariati aspetti, non ultima l'autorevolezza innata, priva di affettazione perché figlia di un rigore etico inusitato ai nostri giorni. La salute malferma lo costringeva a restarsene in casa, ma, chissà perché, quell'involontaria clausura a me era parsa piuttosto simile al ritiro di un laico asceta, circondato dalle amorevoli cure della moglie, Maria Colamartino, di grande dolcezza. Asceta ombroso e sognatore che ha conosciuto stagioni diverse, a partire da una collettiva del “Circolo Unione” del '44 (organizzata da Enrico Panunzio e Giovanni de Gennaro), fulgido esempio di come l'arte possa costituire – c'era ancora l'occupazione alleata – un punto di partenza nell'epos sofferto della ricostruzione. In quella circostanza, Nuovo si era affidato alla nudità degli umani progenitori, Adamo ed Eva, per poi allestire una sua personale nel 1946, tutti dati che ho desunto dal suo curriculum ricostruito da Lorenzo Palumbo per il catalogo L'espressione del sacro. I primi anni della sua attività pittorica si connotano per la raffigurazione di figure di straordinaria umanità: il pescivendolo della collettiva romana del '48, apprezzato da Renato Guttuso, che segnalò Nuovo “come esempio di neorealismo fra i giovani del Mezzogiorno” (Palumbo), “il gatto errante”, quella clownerie o figure di acrobati, icone di un universo caro a Fellini come a Gentilini. Poi le deformazioni espressionistiche della stagione della contestazione, le venature metafisiche, una ricerca mai paga… Tassello dopo tassello l'acquisizione di una reputazione a livello internazionale, che non ha mai intaccato il carattere schivo, poco amante dei riflettori, di un animo di straordinaria poesia. Poesia che si estrinseca nelle rose dedicate a Maria come nei volti petrosi degli eroi del Sud. Nell'amore per la Luna, che Nuovo rendeva oggetto di una ricerca straniata, deformante, all'insegna spesso della perturbazione cromatica. In un sacro vissuto da laico, come testimonia il catalogo sopra citato, che ricorda, su tale versante, l'esistenza di un sodalizio tra Nuovo e Franco Poli. Lo sguardo che contempla il mistero del dolore e della redenzione, deforma i volti umani: ne fa maschere livide, pallori indistinti, orbite vacue. Indugia su un gatto nero che contempla una teoria di fedeli nerovestiti che paiono l'immagine della Morte essi stessi, in uno spazio semi-deserto, ma qua e là popolato di architetture. Annega in un'orgia di rosso il compianto delle “donne al calvario”, con una timida luce, che fa capolino qua e là dal corpo del Cristo. Un corpo che perde qualsiasi connotato umanizzante e si fa sagoma contornata di nero e adagiata nel sepolcro, o pallore lucente tra le braccia pietose di una madre le cui vesti si confondono con la notturna oscurità. Ci sono i paesaggi, laddove lo sguardo d'artista si sofferma sul mondo circostante con quella sensibilità nervosa che contempla le marine e ne restituisce i riverberi luminosi, ne indaga i cromatismi, ne raccoglie il respiro, magari sotto la spada di Damocle di un cielo cupo pronto a riversare sulle acque le proprie lacrime. E poi campi baciati dal Sole o, ad esempio, una Murgia dai colori cangianti in cui l'oro del grano contrasta col bigio d'un cielo ancora una volta foriero di un'oscura minaccia. I simboli complessi, già ricordati nell'articolo del 2003, tra cui “l'uomo della sera”, o i “Tarocchi”, ma soprattutto “l'Angelo dell'Apocalisse”. Quest'ultimo non ha “un piede sulla terra e un altro sul mare”, ma, quasi enorme nuvola chiamata a sommergere di pianto l'umano consesso, si staglia in un cielo violaceo, volando al di sopra di palazzi d'un giallo-grigio spettrale. A lui compete il potere sul bene e sul male, ma sembra non necessitare di spade per adempiere alla propria funzione di Nemesi. Come quel Cristo senza armi, senza occhi, un poveraccio qualsiasi, che, se si fa ombra nella notte, proietta nel buio un pulviscolo luminoso. Poi si addormenta, solitario... Perché sull'umanità possa ritornare il giorno.
Autore: Gianni Antonio Palumbo