Il soldato
Qualcosa si muoveva fra i cespugli, qualcosa di piccolo, non poteva essere un uomo, forse una lepre che sarebbe stata assai apprezzata dagli altri soldati perché il cibo scarseggiava. Imbracciò il fucile: avrebbe colpito ciò che continuava a muoversi cercando di non sprecare munizioni. Un piccolo braccio si levò dal centro del cespuglio, poi l’altro braccio, e infine apparve il volto terrorizzato di un bambino. “No sparare, no, io no nemico!”. Il soldato rise: “Non aver paura, parlo la tua lingua, non voglio farti del male”. Si avvicino al cespuglio e tirò su il bambino che tremava, ma i cui singhiozzi cominciavano a calmarsi, era tutto pieno di graffi provocati dalle spine del cespuglio ma non aveva ferite evidenti. “Ti porto a casa, non aver paura”. Il bambino gli cinse il collo con le braccia. “Indicami la strada, mi chiamo Ivan”. L’isba era poco più di una capanna ad un solo piano, affiancata da una parte da un pezzetto di terreno coltivato e dall’altra da una stalla, e sulla soglia uscì una donna che urlava alla vista del soldato che reggeva il piccolo. La vecchia aveva afferrato un lungo palo di legno posto vicino alla porta da cui si era affacciata, visibilmente spaventata, una donna con i capelli raccolti in un fazzoletto, che imbracciava un vecchio fucile. “Lascia andare il bambino!”, disse con voce ferma. “No, mamma, lui è amico”. La donna aveva visto la divisa ma aveva anche visto con quanta delicatezza il giovane reggeva il bambino. “Ho perso la strada – disse il soldato – perché mi ero allontanato dai miei” “Entrate, presto, potrebbero venire qui”. Entrarono nella grande, unica stanza dell’isba, tutto era pulito e in ordine. Sulla grande stufa di maiolica un bricco di latte caldo che la donna versò in due tazze porgendole ai due. Il giovane bevve avidamente. In un angolo della stanza un vecchio violino, la donna più giovane seguì il suo sguardo: “Era di mio padre, lo suonava anche mio marito, il padre di Yuri, nelle feste”. Il ragazzo prese il violino con commozione, e ad un cenno di assenso della donna cominciò a suonare. Le note di Kalinca riempirono la stanza. Ivan faceva virtuosismi sulle corde del violino e sembrava che suonasse un’orchestra e Yuri ballava elettrizzato, le donne sorridendo battevano ritmicamente le mani. Poi Ivan passò alle note di Podmoskovnye vecera, la più bella struggen- te canzone russa. La donna giovane cantava sotto voce: “Non si sentono neanche i fru- scii in giardino/ Tutto resta immobile fino al mattino. / Se voi sapeste quanto mi sono care/le notti di Mosca”. Yuri andò a rifugiarsi fra le braccia della madre, le due donne avevano le guance riga- te di lacrime. La guerra era così lontana! “Mi sono diplomato al Conservatorio di Mosca, – disse Ivan riponendo con cura il violino – molti dei miei compagni di corso sono ucraini. Ci hanno sequestrato gli strumenti e dato un fucile per combattere l’uno contro l’altro. Come potrei sparare a chi fino a qualche giorno fa suonava con me?”. Il soldato piangeva e piangevano anche gli altri, tranne la donna più anziana: “Fermati con noi – disse – sono già passati di qui senza fermarsi e difficilmente torneranno. Abbiamo un nascondiglio sicuro nella stalla, potrai stare nascosto finché non finisce tutto”. “No, babushka – rispose Ivan, se mi trovassero mi fucilerebbero come disertore, e poi devo raggiungere i miei compagni” “Resta, non te ne andare!” diceva il bambino fra i singhiozzi. “Devo andare, ma ti prometto che tornerò. Appena finisce questa assurda guerra tor- nerò. Come potrei dimenticarvi?”. “E’ passato quasi un anno da quel giorno, mamma. Ivan ci ha dimenticati. Ha pro- messo che sarebbe tornato dopo essere stato a casa!”, dice Yuri a sua madre guardando i fiori del piccolo giardino accanto all’isba che ora crescono rigogliosi. “Aspetta con pazienza”, – dice la donna, ma anche lei non poteva sapere che Ivan non era mai tornato a casa. © Riproduzione riservata