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Il ritorno
15 settembre 2009

Il sole stava rapidamente calando, l’estate interminabile stava per finire. Finalmente. Era stata un’estate afosa, con un tasso di umidità altissimo e temperature molto al di sopra della media, non un giorno di pioggia, non uno di quei bei temporali estivi che erano sempre serviti a rinfrescare l’aria, a indossare la sera giacche di cotone, a tirar su il copriletto per una notte e a tornare a desiderare il ritorno del caldo il giorno dopo. Le previsioni del tempo, ormai sempre attendibili perché rilevate attraverso i satelliti, davano per la fine della settimana tempo nuvoloso e probabili temporali, provvidi, purché come ormai succedeva da anni, non fossero le devastanti grandinate che distruggevano le coltivazioni. Si stava già vendemmiando in molte zone del paese perché l’uva era precocemente maturata, lei comunque, sarebbe già partita. Pensò con distacco alla pergola che copriva la terrazza della loro villetta in campagna. Prima di andar via aveva osservato i grappoli grandi e fitti di chicchi ancora verdi. Se ne sarebbe occupato suo marito. Suo marito… provò il solito rimescolio al pensiero che già da più di una settimana non gli aveva dato sue notizie. Scrollò le spalle: glielo aveva detto che aveva bisogno di star sola, di riflettere su tante cose, anche sul loro rapporto. Erano sempre stati bene insieme, l’assenza dei figli, che, ormai adulti, vivevano in altre città, non li aveva turbati particolarmente… riprovò quella irrequietezza, quel senso di impotenza, di fastidio che l’avevano tormentata negli ultimi tempi, ma per fortuna era arrivata alla sua meta in quei giorni abituale. I raggi obliqui del sole, ancora visibile per poco più di metà del disco, erano radenti agli scogli. Sorrise fra sé, come sempre non c’era nessuno sulla piccola spiaggia deserta anche in piena estate, non era luogo di bagnanti né di pescatori. Non si potevano definire scogli, erano grandi massi bruni, appena lambiti dal mare, appoggiati gli uni agli altri, lisci, levigati, uniformi. Gli ultimi raggi del sole davano loro un aspetto setoso, vellutato, sembravano grosse foche o leoni marini addossati gli uni agli altri. Si lasciò andare su quello più vicino, ne carezzò con la mano la superficie liscia, non un filo d’erba, un’alga, una asperità. La invase un gran senso di pace. Anche nei giorni precedenti era successa la stessa cosa. Era come tornare a casa, ma senza nostalgie rimpianti frustrazioni desideri domande a cui non sapeva dare risposta. Si sdraiò sugli scogli scoprendosi rilassata ma attenta, come in ascolto. In tutto il suo corpo abbronzato, maturo ma ancora duttile e sodo, una sensazione di benessere, di appagamento. Il sole era tramontato completamente, gli scogli erano passati dal bruno al grigio, il mare era calmo, immobile. Si alzò a fatica con un leggero brivido, doveva andare a cambiarsi, sarebbe tornata col buio dopo aver consumato una cena frugale, si sarebbe seduta ancora sui suoi scogli e avrebbe atteso il sorgere del pianeta. Nel buio della spiaggia la sua luce rossa e intensa era perfettamente visibile ad occhio nudo, ma lei portava con sé un piccolo binocolo e stava lì a guardarlo senza stancarsi. Sarebbe stato così vicino alla terra fra qualche centinaio di anni. Non erano problemi suoi, pensò sorridendo fra sé. Aveva ancora due giorni, due giorni per godere il silenzio della piccola casa dei suoi genitori, al limite estremo di un agglomerato di case di pescatori, che era ancora lì, vuota da anni, con poche suppellettili essenziali risparmiate misericordiosamente dai vandali, i servizi ridotti al minimo, niente televisore, radio, giornali, luce elettrica prodotta da un generatore ancora funzionante e un’alta pila di libri portati da casa ormai letti quasi tutti (finalmente si era messa in pari con le letture). Nell’andarsene guardò ancora una volta dentro la spoglia costruzione che sovrastava gli scogli: era una specie di cubo fatto di tufi sovrapposti con un’unica apertura bassa senza porta e un finestrino squadrato più in alto, sul pavimento di rena battuta non c’erano rifiuti, tracce di alcun genere, evidentemente non vi era entrato nessuno da molto tempo. Tornò il giorno dopo. Avvicinandosi agli scogli notò preoccupata impronte di scarpe sulla rena sottile. Dalla piccola costruzione uscirono due uomini. Erano vestiti con abiti da città e non erano certo dei turisti. La salutarono con un breve cenno del capo e continuarono a parlare fra loro. “Possiamo far saltare gli scogli con la dinamite e abbattere la costruzione, - stava dicendo uno dei due - il posto è giusto, si può realizzare…”. Non ci voleva molto di più per capire le loro intenzioni. Sentì un’ondata di rabbia salirle dentro, una rabbia assurda, feroce, che le fece vedere rosso. Si lanciò verso di loro come una furia: “Che cosa volete fare? Non osate toccarequesto posto, andate via, via!”, urlava come un’ossessa. Gli uomini la guardavano allibiti, incapaci di muoversi. Si chinò, prese un pugno di rena umida, ne fece una grossa palla che lanciò verso di loro. Un’altra, un’altra ancora. “Andiamo. Per ora…- disse minaccioso uno dei due – non voglio aver a che fare con questa pazza” Si avviarono alla macchina che avevano parcheggiato piuttosto lontano, dove un sentiero costeggiava la spiaggia. “Torneremo domani e staremo a vedere”, urlò l’altro. Domani. Doveva prepararsi. Si sdraiò sul suo masso, ancora quella sensazione, quel formicolio, come una leggera scossa, come se fosse diventata un apparecchio ricevente. “Non preoccupatevi”, disse rivolta agli scogli. Doveva essere veramente impazzita. Aveva tutta la notte per prepararsi. Tornò a casa. Entrò nel piccolo vano d’ingresso. Oltre la porta di quello che sembrava un armadio a muro c’era un scala di legno fissata con l’estremità al pavimento di un soppalco, salì lacerando le ragnatele. C’erano sempre le solite vecchie cose abbandonate lì da anni: giocattoli rotti, bambole dagli occhi di vetro rientrati nelle orbite, cataste di giornali, un plaid scozzese bucato dalle tarme…non c’era tempo per gli inventari. Andò sicura nell’angolo dove ricordava che c’era una cassa di legno chiusa da un lucchetto che fu estremamente facile far saltare. C’era ancora il vecchio fucile di suo padre che, teoricamente, gli serviva per andare a caccia anche se non lo usava mai, lo prese con attenzione, provò il grilletto: naturalmente era scarico. Portò il fucile nella cucina dove aveva le sue poche provviste e trascorse buona parte della notte a togliere la ruggine e ad oliarlo. Lo depose con cura vicino al suo letto. Dormì per qualche ora di un sonno agitato, svegliandosi di soprassalto, era come se qualcuno la chiamasse. Alla prima luce incerta del giorno si vestì in tutta fretta – una maglietta e un paio di pantaloni lunghi – preparò dei panini con pane del giorno prima e formaggio indurito, non aveva rinnovato le provviste sapendo di dover andar via. Aveva ancora delle bottiglie di birra nel frigorifero, ne prese un paio e un apribottiglie. Si calcò in testa un vecchio cappello di suo padre e indossata una giacca a vento si recò agli scogli. Il sole stava sorgendo, le ombre nette nella luce chiara del giorno davano ai massi, appena lambiti dall’acqua trasparente, un aspetto diverso. La prese una strana euforia, sedette in cima al mucchio a gambe larghe e il fucile accanto. Eccoli. Imbracciò l’arma. Non potevano sapere che era scarica. La videro da lontano, seduta sugli scogli, col fucile puntato su di loro e un sorriso sarcastico sulle labbra. “La pazza è lì ed è armata!”, gridò uno dei due. “Torneremo con i Carabinieri, la legge è dalla nostra parte! Le faremo vedere noi…”, aggiunse l’altro agitando il pugno verso di lei. Non si mosse. Sapeva che se ne sarebbero andati e che doveva resistere fino al tramonto caso mai tornassero. La giornata trascorse lenta, ma non provava noia né stanchezza. Al tramonto era ancora sdraiata sul suo scoglio, era come se una strana energia la animasse, una irrequietezza che non era però in opposizione con la calma di fondo che la pervadeva. Il cielo era ormai scuro, il pianeta sorgeva ad est e non era mai stato così luminoso. Sembrava pulsare. Si guardò intorno. Domani sarebbe partita: chi li avrebbe difesi? “Ma difesi chi?”, pensò sbalordita. La solitudine dei giorni trascorsi stava dandole evidentemente alla testa. Pensò al suo rientro a casa, - alla sua casa – a lui che l’aspettava – ma l’aspettava?, al suo lavoro, ai suoi impegni – ne aveva tanti – e l’assalì un senso di rifiuto, di nausea. Ci avrebbe pensato poi. Guardò ancora una volta il pianeta e le sembrò di chiedere aiuto. Il cielo era nero e il mare si confondeva con la sabbia, era tutto buio. Tornò alla casetta a passi affrettati, ripose il fucile dove lo aveva preso, coprendo la cassa con il plaid e ammucchiandovi sopra giornali e giocattoli per mimetizzarla. Preparò le sue poche cose, rimise in ordine. Dietro la casa c’era uno spiazzo adibito a garage, mise la valigia nel portabagagli, caricò la sveglia all’alba ma era già in piedi prima che suonasse, si preparò in pochi minuti e si diresse correndo alla spiaggia. Tutto era come il giorno prima, ma avvertì una sensazione di vuoto che la sgomentò. Provò una vertigine che le bloccò lo stomaco. Sedette sul suo scoglio: come era freddo e inerte. Si alzò, mise la testa nell’apertura della costruzione. Anche qui tutto come prima. O forse no… la rena sul pavimento sembrava smossa, ma poteva anche essere un’illusione. Tornò a sedersi sullo scoglio e improvvisamente comprese: erano andati via, erano tornati di dove erano venuti, erano in salvo. Urlò, rise e pianse di gioia, quando fu un po’ più calma prese il cellulare, formò il numero di casa sua col cuore che le batteva forte. E se…la voce prima assonnata, poi sorpresa, poi felice di suo marito le scaldò il cuore. Poteva tornare a casa. Anche lei.

Autore: Marisa Carabellese
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