Il regno di Op raccontato “in diretta” da Paola Natalicchio
OP: un nome che richiama alla memoria il regno di OZ. Non bastano, tuttavia, un paio di scarpette rosse e la ferma convinzione che la propria casa sia il posto migliore del mondo a garantirne l’uscita. Nel libro Il Regno di Op (la meridiana, 2012), Paola Natalicchio, costretta suo malgrado a scrivere il reportage di cui nessun altro giornalista avrebbe potuto essere autore, racconta che dal reparto di Oncologia Pediatrica, “ultimo piano del Policlinico Gemelli di Roma”, e dagli altri 54 centri dislocati sul territorio nazionale, è possibile venir fuori con la completa remissione dei sintomi. Che i “bambini invincibili di Oncologia pediatrica” – o i “quasi adulti” adolescenti – possono tornare a leggere fiabe, a cantare nei cori parrocchiali, a coltivare quei sogni bruscamente interrotti dalla dichiarazione di guerra alla malattia. Una guerra fatta di betadine, antiblastici, guanti dei Puffi, del supereroe Goretex, di interventi chirurgici alle volte ai limiti della disperazione, ma anche di camomilla, nesquik, odorosi pop corn. Tutt’altro che inutili, questi ultimi, perché “i bambini, anche quando sono malati, restano sempre più bambini che malati”. Paola Natalicchio, giornalista precaria, collaboratrice de “l’Unità” (ma anche, lo diciamo con orgoglio, del nostro “Quindici”), impegnata in programmi Rai come “Citizen Report”, è una lottatrice e – come afferma Concita De Gregorio nella bellissima Introduzione al volume – una di quelle persone dalla non comune capacità di accettare “senza batter ciglio qualunque nicchia di lavoro oscuro facendola brillare”. Pronta a partire per una nuova collaborazione giornalistica, si ritrova catapultata – per quell’assurdo errore metafisico che fa di un bimbo neonato uno 048, ammalato di cancro – nei corridoi del romano Regno di Op. Terrorizzata per l’oscuro avvenire del figlioletto Angelo e persuasa di essere confinata nel “braccio della morte” di una tetra prigione. Complici l’odore di pop corn, la vicinanza e la competenza del personale medico e ausiliario, la solidarietà delle famiglie degli altri giovanissimi degenti, l’autrice comprenderà di trovarsi piuttosto in trincea. Avrà inizio la personale dichiarazione di guerra di Angelo, Paola e del suo compagno Marco a un fibrosarcoma addominale. Paola si accosterà ad altre storie: conoscerà il talento fumettistico della giovane Astrid (in realtà Esther Cristofori), che rappresenterà con le sue illustrazioni il dignitoso dolore di chi vive nel mondo parallelo di Op; piangerà – con la madre Serena e Nonna Coraggio – per la morte del dodicenne Bernardo, ingiustamente strappato a una quotidianità fatta di partite della Juventus e calore familiare; giocherà a Monopoli con la piccola Michela, spaesata, con la “canotta di Hello Kitty fucsia e le minuscole infradito”, in quell’atmosfera ovattata e sterilizzata che, per mesi, sarebbe divenuta la sua casa. Un muro di speranza separa quella che viene definita la Berlino Est – la zona day hospital – dalla Berlino Ovest, di Op, destinata alla degenza. Come la maggior parte dei piccoli pazienti, Angelo farà la spola tra la DDR e la RFT, ma le continue battaglie contro il drago (ben più subdolo di quello, tutto sommato simpatico, raffigurato in copertina) saranno premiate con l’abbattimento del muro che gli insidiava l’infanzia, rubandogli le gioie semplici toccate ai figlioletti delle “amiche di pancia” della madre. Nel Prologo, Paola Natalicchio chiarisce le finalità che l’hanno indotta prima alla redazione di un Blog sulla sua esperienza e poi alla pubblicazione di questo volume, intervenendo nel dibattito sulla cosiddetta “letteratura del dolore” (si pensi a Gramellini) con la lucidità di analisi che la caratterizza e che mai viene smarrita nelle pagine del Regno di Op. A dispetto di chi conia etichette sardoniche – e inutili – come quella di “Dolorlandia” al solo scopo di farsi pubblicità, noi riteniamo che questo libro fosse a dir poco necessario. Perché quelle “fotografie da un posto dove ai giornalisti è vietato entrare” potranno servire alle famiglie che si troveranno, sciaguratamente, a varcare la soglia di Oncologia Pediatrica. Forse, grazie a questa testimonianza, diverranno “maratonete” di quei corridoi con una speranza nel cuore. Necessario, perché lo Stato deve seriamente riflettere sul fatto che le sorti delle 1500 famiglie “deportate senza colpa” annualmente in quei reparti debbano essere una questione che riguarda la collettività. Deve acquisire la consapevolezza che esse non rappresentino una scomoda minoranza da abbandonare a se stessa o, nel migliore dei casi, “alla filantropia dei privati”. Il grande merito del Regno di Op non è solo quello di aver raccontato, come il film della regista francese Valérie Donzelli, una storia struggente con rara compostezza e nitore, ma è quello di essere uno straordinario reportage giornalistico, integrato dagli scritti del primario di Op Riccardo Riccardi e dell’oncologa pediatra Daniela Rizzo, su una realtà che doveva essere raccontata. Perché quando, lontani dai corridoi di Oncologia Pediatrica, i bambini, gli adolescenti, i genitori che vi hanno sofferto, sperato, pianto, “‘tornano al mondo’ meritano accoglienza, supplemento di attenzioni e rispetto. Direi una festa, ma mi accontento di un sorriso”.
Autore: Gianni Antonio Palumbo