Il racconto - L'orologio da taschino
Sì, lo ammetto Corrado è mio figlio e ne sono molto orgoglioso. Quando mi ha chiesto di leggere i suoi primi racconti ho avuto un tuffo al cuore. Cosa avrei potuto dirgli se avessi avuto tra le mani narrativa infelice? Ancora oggi mi capita di recensire romanzi scritti male. Poi pian piano, mentre leggevo, ogni dubbio si scioglieva. Quello che vi propongo è il suo secondo racconto, il primo è troppo fantasy, ma non ha nulla da invidiare agli altri. L'ho aiutato, come faccio con tutti quelli che me lo chiedono, dandogli consigli sulla sintesi, facendo eliminare qualche ingenuità e migliorare la forma. Ma la storia è tutta sua. E non pare proprio la storia di un sedicenne. Leggere per credere. (d. a.)
“Dannazione! E' in ritardo!” Il grande portone di legno verde era chiuso e il professor Marcelli aspettava che la sua collega uscisse di casa. Erano in ritardo per il colloquio con i genitori, ma questo alla professoressa Bianchi pareva importare poco. Erano le tre del pomeriggio. Il sole era coperto dalle nuvole e faceva presagire un'imminente pioggia. La professoressa aveva la macchina in riparazione, Diego le avrebbe dato un passaggio. “Ancora cinque minuti e poi me ne vado.” A causa dell'agitazione non si accorse dell'avvicinarsi di uno strano individuo.
Arrivava dalla parte alta della strada ed era diretto proprio verso di lui. Il suo aspetto era alquanto singolare. Sulla sessantina, con i capelli bianchi, spettinati dalle punte colorate di marrone, forse, per un fallito tentativo di tinta. Ben piazzato, abbastanza elegante, indossava delle vecchie e logore scarpe da ginnastica.
“Mi scusi. Lei lavora al supermercato?”
La domanda innervosì leggermente Diego. “Certo che no, sono professore di fisica della Dante Alighieri.”
“Fa lo stesso.” Rispose l'uomo con un leggero sorriso.
“Come, prego?”
“Avrei bisogno del suo aiuto. Vede…” Diego sapeva di essere in ritardo, ma sapeva anche di essere una persona molto curiosa. “…dietro l'angolo c'è un vecchio specchio, uno di quelli da parete… avrei bisogno di una mano per portarlo su in casa mia, se lei potesse darmi una mano… potrei darle del denaro…” Quando l'uomo fini di parlare abbassò leggermente la testa, poi la rialzò subito e fissò l'altro con due grandi occhi sapienti.
“Ma mi ha preso per un manovale? Vada a chiedere a qualche ragazzo che ha tempo da perdere!”
L'uomo però insistette. “La prego! E' un pezzo pregiato che vale molto, non se ne trovano più di antichità del genere sul mercato. Non c'è nessun altro in giro che mi possa aiutare, e temo che la pioggia possa irrimediabilmente rovinarlo.”
Questa volta non rispose subito, ma i suoi occhi si accesero.
“Ha detto che è un pezzo di valore?”
L'uomo pensò di capire. “Si! Posso pagarla bene.”
Ci pensò un attimo, più che altro per fare scena. La sua decisione l'aveva già presa. “L'aiuterò, ma mi aspetto di essere pagato da professore, e non da operaio.”
“Benissimo, mi segua!”
I due scesero la via per un po'. Girarono a destra all'altezza di una stretta stradina, e si fermarono di fronte a un cassonetto dell'immondizia. Vi era appoggiato un grande specchio a forma di semi circonferenza, circa un metro e mezzo di raggio. Era incorniciato nel legno inciso ed era molto impolverato. Doveva trovarsi lì da tempo. “Su, mettiamoci a lavoro.”
Presero il grande specchio dalle estremità opposte ed entrarono in un portone aperto per metà. “Mi raccomando, faccia silenzio.”
Diego annuì anche se non riuscì a capirne il motivo.
La salita fu difficoltosa, ma i due, sebbene affannati, portarono lo specchio fino al secondo piano. L'uomo aprì la porta e, sempre aiutato dal professore, lo trasportò all'interno appoggiandolo al muro. Appena entrati, un vecchio orologio a pendolo annunciò lo scoccare delle tre. L'ingresso dell'abitazione era una stanza di media dimensione con, al centro, un tavolo in legno. Sul tavolo vi erano sparse molte lettere scritte a mano che circondavano un mortaio di bronzo.
Sarà un antiquario. Pensò il fisico. Forse per colpa dello sguardo dell'uomo, l'insegnante non ebbe più voglia di ricevere alcun compenso. Una strana sensazione di nausea gli partiva dallo stomaco e gli faceva bruciare la gola. “Io andrei.”mormorò.
“Aspetti…” Disse ansimando l'uomo. “Le avevo promesso una ricompensa.”
Diego scosse il capo: “Non voglio denaro”.
L'uomo quasi se lo aspettava: “Mi permetta allora di regalarle questo.” E gli porse un vecchio orologio da taschino. Non doveva valere molto. Diego lo accettò e se ne andò. Era immerso nei suoi pensieri, quando squillò il cellulare. Si era quasi del tutto dimenticato della collega.
Il ricordo dell'uomo gli rimase impresso nella mente. A volte, guardava l'orologio e si lasciava ipnotizzare dal suo ticchettio regolare. Una sera si addormentò osservandolo.
Sognò di essere un fantasma, e di assistere a un duello fra due spadaccini, i colpi si susseguivano in una frenetica corsa che avrebbe segnato la fine di uno dei due.
Un fendente colpì il duellante più anziano e il suo avversario gioì vittorioso. Diego riconobbe nel vincitore qualcosa di familiare.
Dopo aver assistito al duello si ritrovò in un'aula dove gli fu conferito il premio Nobel per la fisica.
La mattina successiva si svegliò tardi e riuscì a stento a raggiungere la scuola in tempo. Per tutta la giornata, quel sogno così realistico, lo tormentò. Durante la notte successiva ritornò.
Sognò lo stesso giovane che, in tunica romana, guidava una legione alla guerra. Poi si ritrovò in una tabaccheria, con in mano un “gratta e vinci”. Aveva vinto il primo premio.
Il mattino dopo si alzò ancora più tardi. Come una droga, il professore non poté più farne a meno e, ogni notte, si lasciava ipnotizzare. Sognava frammenti della vita di un giovane che si svolgevano in mondi ormai persi nel tempo.
Volò dall'antico Egitto alla Francia in rivolta, per poi giungere nella Grecia della poleis, sempre accompagnato da quel giovane che sembrava sfidare vittorioso il tempo.
Dopo aver vissuto il breve evento storico, Diego, diventava parte di quei sogni e faceva e impersonava ciò che di più riusciva a desiderare. Ogni mattina si alzava più tardi e la sua stanchezza aumentava. Troppo. Si scoprì ammalato di cancro e il dottore gli pronosticò pochi mesi di vita. Diego li visse sognando. Quando capì che era arrivato il momento di morire si concesse un ultimo sogno. Fisso l'orologio e si addormentò.
Il grande portone di legno verde era chiuso e il professor Marcelli aspettava che la sua collega uscisse di casa. Erano in ritardo per il colloquio con i genitori, ma questo alla professoressa Bianchi pareva importare poco. Erano le tre del pomeriggio. Il sole era coperto dalle nuvole e faceva presagire un'imminente pioggia. La professoressa aveva la macchina in riparazione, Diego le avrebbe dato un passaggio. “Ancora cinque minuti e poi me ne vado.” A causa dell'agitazione non si accorse dell'avvicinarsi di uno strano individuo.
Arrivava dalla parte alta della strada ed era diretto proprio verso di lui. Il suo aspetto era alquanto singolare
Fu allora che capì. Quello che gli era sembrato un uomo era sempre stato nei suoi sogni. Era più giovane, e per questo non lo aveva riconosciuto subito.
“Hai preso la mia vita?” Chiese Diego.
“No, tu me l'hai regalata.”
“Non sono il primo, vero?”
“Nessuno sarà mai così felice da non desiderare di più.”
“Ho solo un rimpianto.”
“Quale?”
“Avrei dovuto accettare i tuoi soldi.”
“Così avrei preso anche la tua anima.”
“…”
“Ora dammi l'orologio.”
“Ecco. Prendi.”
Quando quella sera il dottore ne accertò la morte notò che fra le sue mani vi era un vecchio orologio da taschino. Fermo.