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Il Pullman della memoria fa tappa ad Auschwitz: le testimonianze degli studenti del Liceo Classico di Molfetta
09 febbraio 2015

MOLFETTA - Come ogni anno l’appuntamento con il “Treno della Memoria” è arrivato puntuale, grazie all’Associazione Terra del Fuoco  che da sempre si impegna affinché il messaggio, di cui  la giornata del 27 gennaio è custode, non si illanguidisca ma resti sempre attuale.

Il “Pullman della Memoria” ha coinvolto scuole di tutta la città ed innegabilmente ha riportato a Molfetta la sera del 2 febbraio ragazzi diversi da quelli che aveva raccolto il 27, forse più maturi,  più consapevoli, certamente segnati da un’esperienza indimenticabile. Perché quando si vede materializzata davanti a sé una pagina di storia, quando si tocca con mano un’ atrocità che si credeva così lontana, quando si entra ad Auschwitz, in realtà ci si rende conto di come sia Auschwitz ad entrare a far parte di sé.

E nonostante trasmettere questo vortice di emozioni, immagini, pensieri senza restarne intrappolati  sia complesso, è questo il lavoro che ha aspettato i ragazzi al loro ritorno, in qualità di ambasciatori in Polonia della più estesa comunità scolastica.

In particolare, i ragazzi del Liceo Classico, testimoni di una verità più grande di loro, hanno provato a comunicare l’intensità di  tale esperienza al resto della scuola in occasione della rappresentazione teatrale “Shemà - L’Urlo” che li ha visti tutti riuniti come spettatori. E a due giorni dal loro ritorno,  è stato possibile in effetti, attraverso la profondità dei loro pensieri ed il tremore delle loro voci immaginare di essere lì, tra le scarpette rosse di Auschwitz o nel cimitero di Birkenau.
Pertanto le riportiamo qui integralmente, invitandovi a sceglierne una ed a farvi travolgere dalla Memoria.

«Quando ho solcato il varco dell'entrata di Auschwitz mi ha avvolto un religioso silenzio, mi sembrava inappropriato dire qualsiasi cosa, provavo solo rabbia e rancore per quello che un uomo, un solo uomo, ha potuto fare all'umanità. Ho sentito un brivido lungo la schiena che mi ricordava quanto un uomo può essere forte da sopportare tutto ciò e allo stesso tempo fragile dinanzi alla storia, dinanzi agli avvenimenti, quasi inerme dinanzi al dolore di separarsi dalla propria famiglia, di perdere il lavoro o qualsiasi tipo di affetto.
E' successo, può succedere ancora, sta già succedendo ai giorni nostri.
Hitler ha fatto questo, si è impossessato del potere, prevaricando su milioni e milioni di uomini mentre il resto del mondo restava a guardare senza far nulla.
E' ciò che avviene tutt'ora. Sono passati settant'anni ma l'uomo dovrebbe imparare dai propri errori. Ricordare questa strage e per di più visitare dei veri e propri cimiteri umani, fabbriche della morte.
Prima di partire per questo viaggio, mi sentivo quasi indifferente riguardo la strage della seconda guerra mondiale. Ero disinteressata in quanto è un avvenimento distante da noi ma provando ad avvicinarmi il più possibile a tali avvenimenti, una cosa mi ha stupita più delle altre: la forza con cui un uomo non smette di sperare.
Ora, ci sentiamo tutti responsabili, incaricati di portare testimonianza a coloro che non hanno toccato così da vicino la follia della mente umana.
Il male ha molti volti, ma tutti noi possiamo e dobbiamo fare qualcosa: combatterlo».


«Una frase di Guccini dice: “Ad Auschwitz tante persone, ma solo un grande silenzio. Un silenzio che permette di immaginare gli sguardi, gli ultimi abbracci, le lacrime di milioni di persone. Persone. Questo erano, questo sono ancora. Persone con un volto, un nome, una storia, una vita”.
Uno di loro, sopravvissuto scrive: “Ci toglievano anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di far sì che dietro al nome qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”. Penso che loro la forza l’abbiano sempre trovata ed è proprio quella che mi ha spinto a camminare in quel luogo spaventoso, freddo, in cui potevamo percepire ancora la loro paura, la loro stanchezza, la loro voglia di lottare, la loro speranza. Un luogo di morte, un luogo lontano da noi ma che si trova dentro di noi. Un cimitero immenso, che ha conservato ancora oggi una forza inarrestabile, quella forza che deve servire a conoscere e a riflettere, perché senza dubbio, comprendere è impossibile.
Il cielo di Birkenau era pallido, triste: tutto rispecchiava l’animo e il volto di quelle persone. Abbiamo potuto vedere i capelli di milioni di vittime. Avevano tolto loro anche questo: forse quello è stato per me il momento più toccante. Non so dire esattamente cosa ho provato, erano molte sensazioni che lottavano una contro l’altra.
Quelle ciocche, quelle intere trecce resteranno per sempre nella mia mente. Ci hanno chiesto di ricordare una delle vittime. Ho scelto Stanislawa Kordasiewicz, morta il 4-03-1943 a soli 36 anni. Ho scelto lei perché aveva degli occhi che parlavano; degli occhi che da soli riuscivano a far capire chi fosse, come fosse, cosa provasse».

«Prima di partire provavo emozioni, ansia, paura ma allo stesso tempo curiosità, voglia di guardare e toccare la storia. Poi, queste emozioni sono maturate nel momento in cui ho messo piede nel campo di Auschwitz e dopo aver osservato tutti gli oggetti personali degli ebrei: occhiali, vestiti, valige, protesi, pettini, pentole da cucina, bambole e giocattoli dei bambini; continuamente immaginavo e allo stesso tempo quasi sentivo le loro sofferenze e il loro dolore. Diverso, però, è stato per Birkenau, un campo di sterminio enorme, che alla vista è immenso e la fine impossibile da vedere, come se il resto del mondo non esistesse. Se ad Auschwitz ho provato tanto dolore e sofferenza, a Birkenau, dopo la visita di questo campo, quando noi tutti ci dirigevamo verso l’uscita, ho provato un sentimento di libertà. Forse la stessa libertà che hanno provato gli ebrei nel 1945 quando sono stati liberati da questi orrendi campi di morte.
Il Treno della Memoria è stata una grande occasione per me, perché oltre ad aver visitato posti storicamente importanti, ho provato emozioni contrastanti, dolore e libertà.
Concludo con un messaggio fondamentale del Treno della Memoria, che prende spunto da Primo Levi: “Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo”. Il senso di questo viaggio è proprio quello di evitare che una tale tragedia possa accadere ancora. La forza della memoria ci aiuta a crescere nel futuro».

«Talvolta trattando questo argomento è comune, se non inevitabile, cadere nella retorica. Tuttavia l’emozione che si prova è talmente forte e toccante che non potrebbero mai esserci parole adeguate per descrivere. Il rischio più grande che si potrebbe correre camminando su quegli stessi sentieri percorsi dai deportati, è quello di banalizzare; di banalizzare ciò che si sta osservando, di banalizzare ciò che altri prima di noi hanno vissuto in prima persona stando lì, di banalizzare uno dei paesi più grandi che la storia della civiltà umana deve sopportare. Io davanti a quel cancello ho seriamente avuto paura di commettere questo grave errore, di farmi scivolare dalle mani il dovere di responsabilità nel ricordare ciò che è accaduto, il dovere che ogni uomo sulla faccia della terra dovrebbe avere, ma che dimentica molto facilmente. E allora ho chiuso gli occhi e ho visto “davanti a me una mamma e sua figlia, si tengono strette tra di loro con gli occhi pieni di paura, si stringono ogni secondo sempre di più. La bambina piange mentre la mamma con fermezza la stringe ancora più forte tra le sue braccia, e si stringono sempre di più come se l’una scomparisse nell’altra. All’improvviso un uomo in divisa si avvicina. Con cattiveria strappa la bambina dall’abbraccio della mamma. Un urlo straziante riecheggia nell’aria; è così forte che lo sento quasi vicino a me”.
Immaginate quanto sia brutto perdere in un secondo la persona che più si ama. Immaginate quanto sia brutto vederla strappata a voi senza un valido motivo, in un secondo. Ho immaginato e subito ho pensato che non esiste cosa più dolorosa e straziante di questa. All’improvviso ho sentito mio il dolore di quelle mamme nell’aver perso una figlia e ho sentito mia la paura di quelle bambine nel sentirsi in un secondo sole e senza protezione. E allora una lacrima è scesa dai miei occhi. È questo il segreto. È questo il segreto per non dimenticare, immedesimarsi e sentire nostre le loro paure, le loro sofferenze. Loro meritano il nostro ricordo, la nostra memoria, le mostre lacrime di compassione. Ho capito da questo viaggio che noi giovani in particolare abbiamo un compito ben preciso: cercare di portare avanti il presente evitando di commettere gli errori del passato, perché noi siamo il futuro. Mi ritengo fortunata nell’aver compreso questo. Camminando su quei sentieri mi sono promessa, in un modo o nell’altro, di ispirarmi alla forza che hanno avuto gli ebrei. Ogni volta che cadrò mi ispirerò alla forza che avevano nel rialzarsi e cosi li ricorderò e saranno sempre vivi, almeno in me».

«Siamo ad Auschwitz. Nel silenzio tombale che ci ha legati dal nostro ingresso al campo, siamo tutti vicini, forse per il freddo, forse per farci forza, forse per entrambe le cose. Entriamo nel blocco dedicato agli oggetti personali sottratti ai prigionieri. Davanti a me, dietro un vetro che occupa tutta la parete, c’è una massa informe di capelli che arriva quasi al soffitto. Tra tutti quei capelli riconosco delle trecce e qualche ciocca bionda. Mi sento sprofondare il cuore e lo stomaco. Ricordo quando da piccola non volevo separarmi dalle mie lunghe ciocche bionde e vederle per terra, sul pavimento della parrucchiera, mi faceva stare male e mia madre mi diceva che erano solo capelli, che sarebbero ricresciuti. E subito ricordo anche tutte le volte in cui mia mamma mi ha asciugato e pettinato i capelli, creando un momento tutto nostro, in cui non dovevamo per forza parlare, bastavano le sue mani che mi accarezzavano i capelli per rendermi felice. E allora penso a tutte quelle mamme e quelle figlie a cui quel momento speciale era stato strappato via, costrette a vivere in un inferno senza colore, senza speranza, in cui anche questo piccolo gesto di conforto era vietato. Poi, in una delle stanze successive, occupando una parete altrettanto grande, ci sono le valigie di una piccolissima parte di quelle mamme e quelle figlie, che speranzose di poter riavere i loro oggetti, avevano scritto i loro nomi: Klara, Anna, Marie, Sara, Raphaela. E poi Franz, Otto, Joseph, uomini, ragazzi, padri e figli i cui legami erano stati tagliati brutalmente da emissari di qualcuno che, venerato come un dio, aveva creduto di esserlo e aveva portato l’inferno in terra, pensando di avere il diritto di spezzare la vita delle persone come se fosse un capello, impigliato in un pettine mortale. E poi ho visto Luis, il mio Luis, il ragazzo che ho deciso di ricordare nella commemorazione finale. Ho scelto Luis perché, nonostante fosse all’inferno e gli avessero portato via tutto, nonostante la maglietta a righe e i capelli rasati, nella foto di riconoscimento accennava un sorriso e nei suoi occhioni ho visto tanta di quella dolcezza e speranza, la speranza di un ventenne che voleva solo ritornare alla sua vita, realizzare i suoi sogni, viaggiare, magari innamorarsi, o rivedere la sua amata, diventare tutto ciò che il suo cuore gli chiedeva. Lui non ha potuto fare niente di tutto ciò, ma guardandolo negli occhi, anche solo attraverso una fotografia, ho capito che ogni volta che mi sembrerà di essere in un buco nero senza uscita, ripenserò al sorriso del mio Luis e alla sua speranza e spero di essere speranzosa e forte quanto immagino, anzi so, sia stato lui nei sue due mesi passati all’inferno».

«Nell’esperienza vissuta ho ritrovato una parte di me che credevo perduta. Sono stati giorni intensi che mi hanno fatto comprendere il senso delle cose e della vita. I campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau hanno reso, in gran parte, visibile la realtà passata vicina a noi. Ogni passo in quell’ambiente cupo, grigio e silenzioso, mi faceva sentire solo e impotente. Tutti i blocchi hanno evidenziato condizioni di vita devastanti e sofferenti. Ogni foto e ogni testimonianza scritta regalavano un’emozione che ti rimane impressa sempre, come una cicatrice. Ed ogni numero, anzi, ogni persona, ha una sua storia che non è giusto dimenticare. Tutte quelle valigie, tutti quei capelli, mi hanno fatto rabbrividire, perché ogni ciocca di capelli faceva parte di una persona alla quale è stata sottratta la vita. Ogni valigia racchiudeva gli averi di quelle vittime. Ognuna di quelle vittime è, adesso, importante. Merita di essere riconosciuta e ricordata. E, al termine delle due visite, posso constatare che, a malincuore, la sofferenza e la cattiveria in quel mondo separato da tutto il resto, non hanno mai avuto fine e limite. Questo viaggio mi ha insegnato ad apprezzare di più la vita e tutte le cose che possiedo. Ritengo che sia un’esperienza formativa e fondamentale per ogni adolescente, per acquistare coscienza e buon senso e per lottare ogni giorno nella speranza di cambiare le cose; ognuno di noi deve impegnarsi, per aiutare il prossimo e se stesso».

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Autore: Gaia Giancaspro
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