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Il povero oggi è la persona della porta accanto
15 giugno 2021

Secondo il rapporto Caritas Molfetta – Ruvo – Giovinazzo – Terlizzi durante la pandemia la povertà è cresciuta: circa 150 persone (rappresentative di altrettante famiglie) si sono rivolte in Caritas e di queste l’80% è costituito da nuovi iscritti. Gli interventi effettuati sono stati 1.000 tra consegna di pacchi alimentari, sostegno al reddito, buoni spesa, assistenza farmaceutica e prodotti per neonati. Un impegno encomiabile di cui ha parlato a “Quindici” don Cesare Pisani – direttore dell’ufficio Caritas Diocesana nonché rettore del Seminario Vescovile – ripercorrendo i momenti più salienti della pandemia da Covid-19 sino ad arrivare alla situazione odierna. La pandemia da Covid-19 ha rivoluzionato il Mondo intero sia sotto il profilo sociale che economico. Prima che ciò accadesse quali erano i volumi in termini di aiuto che la Caritas Diocesana gestiva? «Prima che scoppiasse la pandemia le richieste erano quelle che potremmo definire “ordinarie” nel senso che gestivamo richieste di pagamento bollette o supporto a famiglie monoreddito e con figli a carico. Situazioni particolarmente diffuse perché a ben vedere la povertà abita i nostri quartieri e in alcuni sembra addirittura più concentrata. Dunque, in realtà non c’era una situazione gravosa tranne qualche caso eclatante come uno sfratto o la perdita repentina di lavoro. Ma comunque anche in queste circostanze si riusciva a dare un contributo. Se lo guardo oggi, si tratta certamente di un numero molto piccolo». Con lo scoppio della pandemia a marzo 2020 che situazione vi siete trovati a gestire? «Ad inizio pandemia sono scomparsi gli abitudinari delle Caritas e – quasi concomitanza dei periodi estivi – si è verificato il tracollo: gli utenti che si sono rivolti a noi sono aumentati esponenzialmente. E non si è trattato e tutt’ora non si tratta dei cosiddetti “poveri” ma di gente impoverita dalla perdita del lavoro. Ci siamo ritrovati a gestire famiglie che non riuscivano più a badare alla loro sussistenza e a quella dei figli e nemmeno a raggiungere obiettivi prima fattibili come il pagamento del mutuo o della rata della macchina. Si tratta di persone che in un periodo di normalità riuscivano a gestire queste spese tranquillamente. Il povero oggi ha cambiato volto e non è più lontano da noi ma può essere il nostro vicino di casa, un nostro amico: persone che si sono impoverite o stanno andando verso un impoverimento. Parliamo di una nuova fascia della popolazione che si è affacciata alla Caritas anche con un certo timore e quasi un senso di vergogna. In realtà non riesco nemmeno a quantificare il fenomeno perché più che al dato numerico abbiamo prestato attenzione ai bisogni che a loro volta sono stati in parte monitorati attraverso una piattaforma – in fase di aggiornamento – presente sul sito della Caritas Italiana. Una sorta di osservatorio delle esigenze delle persone che si rivolgono a noi al fine di rendere più capillare l’intervento sul territorio. E poi c’è da considerare che spesso dietro una richiesta non c’è un bisogno immediato, esplicito: lo si percepisce, più che altro e lo si orienta in modo tale da soddisfarlo il prima possibile. Nella lettura dei bisogni riusciamo poi ad intercettare i fondi e le materie prime per poter andare incontro alle persone». Quale fascia della popolazione è stata maggiormente impattata? «La fascia maggiormente colpita è stata quella dei lavoratori stagionali e di chi – già da prima della pandemia – aveva un lavoro precario». Nell’immaginario collettivo dire “Caritas” vuol dire sostegno, aiuto che si manifesta attraverso l’erogazione di beni alimentari ai più bisognosi. Ma in realtà non si tratta solo di questo. Quali tipologie di aiuto sono state messe in campo in questo particolare momento storico? «Sì, è vero. Dire “Caritas” non è solo sinonimo di un piatto caldo. Nel corso del nostri impegno abbiamo provveduto a sopperire a diverse esigenze: dal pagamento della bolletta all’erogazione di farmaci, da un contributo economico alla messa a disposizione di figure professionali come una logopedista e una psicologa. E la bellezza maggiore è che molti utenti ci hanno tenuto a contraccambiare con forme di volontariato pur di sdebitarsi e ringraziare per l’aiuto e il sostegno ricevuti. D’altronde non stiamo parlando di chi ha fatto della povertà uno stile di vita, di chi ha perso tutto o di chi è stato emarginato, bensì della signora della porta accanto. Per questo come ho già accennato abbiamo messo a disposizione dell’utenza anche uno sportello d’ascolto gestito da una psicologa. L’immaginario del “piatto caldo” va bene ma ci sono tante altre povertà che noi non le leggiamo e che impoveriscono tutta la società. Ad esempio ci sono arrivate richieste da parte di mamma che non sapevano più come gestire i propri bambini sempre più attaccati ai videogiochi, genitori che travolti dalla paura della pandemia facevano e fanno fatica ad uscire di casa e far uscire i propri ragazzi. Questo aspetto relativo ai più giovani è una povertà di cui nessuno si accorge. I nostri ragazzi sono in un momento di alta povertà relazionale: si sono persi le partite a calcio, i momenti ludici tra amici e anche quelli affettivi. E non possiamo sempre demandare a terzi come ad esempio la scuola ma tutti dovremmo provvedere a questo tipo di impoverimento sociale perché le conseguenze ce le ritroveremo sulle nostre future generazioni. E non sto parlando banalmente della maleducazione ma della perdita di pezzi di vita. Questo tempo a chi lo devono far pagare? Questo è un altro tipo di povertà a cui la scuola non può far fronte da sola. Nella vita dei nostri giovani ad oggi sembrano quasi assenti i progetti di vita: quello che avrebbero voluto o potuto costruire ieri non è detto che lo facciano domani. Magari domani sarà troppo tardi o nel frattempo avranno cambiato idea, strada. A mancare oggi è il sogno». Queste attività di sostegno come sono state finanziate? Siete riusciti ad aiutare tutti coloro i quali si sono rivolti alla Caritas Diocesana? «Sì, siamo riusciti a gestire tutte le richieste d’aiuto. Ci siamo avvalsi di una parte dell’8 x mille destinata a questa tipologia di interventi e delle offerte derivanti da una campagna di raccolta fondi che è stata avviata durante la pandemia. Un periodo questo che ha insegnato a tutti il vero valore della solidarietà e della carità: di fatti c’è stato il contributo di cittadini e imprendito- ri sia economico che di erogazione di beni alimentari. Questo ci ha permesso di non soccombere. Chiaramente non è mancato anche il supporto del Comune di Molfetta in termini di elargizione fondi». Di chi vi siete avvalsi per gestire queste attività di supporto? Si sono instaurate delle collaborazioni? «Sì, abbiamo lavorato in rete. Dalla collaborazione con il Comune di Molfetta al Centro Antiviolenza Pandora, dai Servizi Sociali agli imprenditori che hanno dimostrato grande solidarietà attraverso donazioni in denaro e alimentari. C’è stato davvero un forte sostegno. In questa rete di cooperazione è stato coinvolto persino un CAF di Molfetta che ci ha dato supporto per tutte quelle pratiche – come ad esempio l’indennità di accompagnamento o la pratica per l’ottenimento dell’RCD (Reddito di cittadinanza) – per cui i cittadini, da soli non sarebbero riusciti a barcamenarsi. Questo perché c’era e c’è di fondo una reale difficoltà di esecuzione di queste particolari pratiche vuoi anche per la difficoltà di compilazione. È stato un dono incontrare queste persone e condividere questo momento di difficoltà insieme a loro. Chiaramente si tratta di volontari». C’è una città in particolare della Diocesi in cui avete ravvisato una situazione più critica che nelle altre? «In realtà no. La situazione si è dimostrata paritaria in tutte le città della Diocesi. È difficile parlare di una maggiore criticità quando incontri volti, leggi negli occhi di chi ti chiede aiuto storie di paura e disagio. Sì perché di paura si tratta, paura di chi ha visto crollare quello che con fatica e sacrificio aveva messo su. Insomma in nessuna città – a partire da giugno 2020 – c’è stata una situazione di calma, anzi tutt’altro. Si tratta davvero di bombe di storie a cui non eravamo abituati e forse non lo siamo tutt’ora. Un esempio sono le testimonianze di donne maltrattate e picchiate. Da qui nasce la collaborazione con il Centro Antiviolenza Pandora». A distanza di più di un anno dallo scoppio della pandemia ha riscontrato un miglioramento o la situazione è rimasta immutata? «L’impegno chiaramente è ancora pieno e le domande di sostegno continuano ad arrivare anche perché in taluni casi sta venendo meno quel supporto della rete familiare per un prosciugamento delle risorse economiche impiegate al massimo sforzo possibile per aiutare i figli. Insomma anche i pensionati – che con le loro pensioni rappresentano una garanzia, un importante ammortizzatore sociale, oltre che una spinta morale molto forte – sono allo stremo. In questo periodo ci siamo stupiti di questo aumento continuo e costante di persone che a noi si sono rivolte. Vero è che c’è chi sta riprendendo il lavoro stagionale e si sente già fuori dall’emergenza. L’apertura di ristoranti, hotel e altri settori rimasti chiusi sino a qualche settimana fa sicuramente daranno nel medio termine una boccata d’ossigeno a tanti lavoratori». Che scenario futuro secondo lei si prospetta sul piano della “povertà” nelle nostre città? Come detto pocanzi in vista delle riaperture potrebbe paventarsi un calo delle richieste. Oggi da noi ritornano famiglie che grazie al nostro aiuto sono tornate a gestirsi in autonomia, uomini e donne che hanno ritrovato la gioia di ricollocarsi dal punto di vista lavorativo. Però di contro c’è ancora chi è rimasto e probabilmente rimarrà sul campo di guerra. Sicuramente non ci proponiamo come dei salvatori ma offriamo una sorta di aiuto fattivo, concreto. Infondo rappresentiamo i cuori di tutti quegli uomini e quelle donne che si sono messi a disposizione per aiutare il prossimo». © Riproduzione riservata

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