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Il corpo dell'opera di Manuela Centrone
15 maggio 2009

Si è conclusa con successo l’esposizione “Il corpo dell’opera”, allestita in via Termiti, dall’11 al 19 aprile, da Manuela Centrone. “Artiste plasticienne” versatile e qualificata, la sua formazione, iniziata presso l’Accademia delle Belle Arti di Venezia, l’ha indotta ad approdare alla parigina Università di Arti Visive della Sorbona. Nella capitale francese, presso la Facoltà di Medicina, la Centrone frequenta attualmente il corso di “Arte-terapia”. Un allestimento coraggioso e ricco di connotazioni simboliche quello ospitato presso l’atelier di Raffaele Cappelluti; un’estrosa ricerca che muove dalla “composizione/ decomposizione/ ricomposizione” del corpo per esplorare le pieghe di un’anima che con il proprio materico complemento instaura una relazione ora di armonica fusione, ora di spaesata percezione di un’alterità indecifrabile. L’arte performativa, con la sua natura fluida, garantita dalla possibilità di una proficua interazione con il pubblico, è il dominio in cui l’inquieta sperimentazione di Manuela conosce in questo momento la sua attuazione. L’allestimento documenta, per mezzo di fotografie, le performances parigine dell’artista verificatesi nell’arco temporale degli ultimi due anni; l’esposizione degli abiti indossati dagli attori impegnati in esse consente di valutarne l’estremo dinamismo. Numerose sono le tematiche cui l’ingegnosa creatività dell’artista allude. Un rapporto con il cibo ai limiti dell’antropofagia è al centro delle visionarie variazioni di “Le repas/il pasto”, con un gelatinoso cuore (le cui trafitture ammiccano a memorie di matrice sacra) offerto in pasto al pubblico divenuto attore, e di conseguenza artefice, di questo ciclo di creazione/distruzione dell’opera d’arte stessa. Elemento cibo recentemente alla ribalta, a Milano, grazie a una discussa installazione dal chiaro significato politico di Vanessa Beecroft, una provocatoria rivisitazione afro dell’“Ultima cena” di Leonardo. Colpisce nella ratio dell’allestimento della Centrone la raffinata corrispondenza tra i dettagli performativi che emergono dalla documentazione fotografica e le caratteristiche degli abiti, processo evidente in Ouverture/fermeture con un urlo femminile, a metà tra liberatorio e allucinato, a stabilire una sottile corrispondenza con la fenditura della veste indossata per la performance. L’Addolorata, in cui sembrerebbe essersi trasfusa la molfettese devozione ai riti della settimana santa, è forse il punto d’approdo d’un percorso che muove dalla mariée (la sposa), passando attraverso la madre; l’abito indossato nel corso dell’installazione, inizialmente candido, nella quasi menadica torsione di un corpo annichilito dalla sofferenza, si tinge di rosso per effetto dell’azione dei liquidi contenuti nelle tasche. Il sangue rappresenta un altro dei Leitmotive di un’esposizione, che adotta il corpo come opera d’arte e ne sonda le infinite potenzialità espressive. Rivivono fantasie mitologiche attraverso la leggenda di Marsia scorticato, da Manuela assunto, secondo suggestioni psicanalitiche, a simbolo della patologica incapacità umana di stabilire un confine tra la propria pelle (e conseguentemente il proprio corpo) e quella altrui, limite a volte sottile come il filo che percorre l’installazione dall’artista dedicata al mitico satiro. Sicuramente il momento clou della visita all’esposizione è rappresentato dalla visione del filmato “Raiponce”, documentario di una performance di circa quattr’ore sperimentata da Manuela a Parigi. Si tratta di un’affascinante rievocazione della fiaba di Raperonzolo, celebre soprattutto nella versione dei fratelli Grimm. La cattività della giovane fanciulla, scaturita dall’incantesimo di una maga e, non a caso, dalla fame compulsiva della madre della protagonista (che trae il nome dai ‘raperonzoli’, piante bulbacee, nel racconto custodite in un hortus conclusus e proibito), potrà essere vinta solo grazie all’ausilio della sua foltissima, dorata chioma, unico canale di comunicazione con il mondo esterno e, soprattutto, con un principe innamorato. Così, isolata in un appartamento parigino, con indosso una sottoveste chiara e un’enorme parrucca, Manuela rivive, per tutto il tempo della performance, l’isolamento di Raperonzolo; sperimenta il vago senso di attesa che ne connota le vuote giornate. Il pubblico e la telecamera studiano i movimenti dell’artista, che interagisce con i fili di cotone e lana della pesante chioma, divenendo una “scultura temporanea, trasportabile e amovibile di esistere”. E mentre, nella plasticità delle sue pose, l’artista/Raperonzolo ci rammenta un altro archetipo del femminino in cattività, la klimtiana Danae, che solo la pioggia d’oro d’una maternità d’origine divina potrà illuminare, si avverte un malioso scollamento tra il tempo della metropoli parigina, con la sua moderna, inarrestabile frenesia, e la temporalità scandita dalle lente evoluzioni della fanciulla. È l’eterno fascino di un’arte che ci sottrae all’accecamento di una quotidianità schizofrenica e ci conduce in una dimensione altra. Dimensione in cui decostruire e ricomporre la nostra corporeità, vincendo quel senso di repulsiva estraneità che spesso ci rende stranieri a noi stessi.

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