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I Templari a Molfetta
15 aprile 2016

L’ordine del Tempio fu fondato nel 1119 dal francese Hugo de Payns, ebbe sede presso l’antico tempio della Città Santa, con il compito di difendere i pellegrinaggi in Palestina e di sostenere il regno latino di Gerusalemme. Accolse in parte lo spirito della riforma cistercense, ed incontrò il favore di San Bernardo, che scrisse una famosa lettera sui doveri di questa milizia. Il reclutamento avveniva fra la nobiltà europea, con prevalenza dei francesi, e i suoi membri erano divisi in cavalieri laici con voti religiosi e cappellani sacerdoti. A capo dell’ordine vi era un Gran Maestro. I templari, insieme agli altri ordini cavallereschi, soprattutto giovanniti e teutonici, difesero la cristianità d’Oltremare, ed accumularono in tutta Europa, grazie a lasciti, donazioni, e operazioni finanziarie, inestimabili ricchezze che suscitarono invidie e timore nel papato e nei sovrani, soprattutto francesi. Di qui la loro ascesa e successiva, tragica, caduta. Marco Ignazio de Santis ha recentemente pubblicato sulla rivista “Studi Melitensi” (XXII- XXIII, 2014-2015), edita dal Centro Studi Melitensi di Taranto, e diretta da Mons. Luigi Michele de Palma, un saggio intitolato “I beni dei Templari a Molfetta dal XII al XIV secolo”. Ne parleremo brevemente. Le prime testimonianze sui beni del Tempio nel territorio molfettese risalgono all’epoca normanna. Nel marzo del 1148, diciottesimo anno del regno di Ruggero II, viene menzionato un oliveto (“terra cum olivis fratrum Templi’’), in località Vaditello. Nel febbraio del 1152 è citata una proprietà in località ‘‘Turris’’, situata ad occidente dell’agro molfettese, verso Bisceglie, una zona che l’Autore, sulla scorta di prove documentali, ritiene dovesse essere densamente antropizzata e gravitante sul porto di Cala San Giacomo. Regnando Guglielmo II il Buono, nel 1176, Kalogiovanni di Simeone di Molfetta, quale esecutore testamentario del defunto Ranfredo, perfeziona la donazione di un oliveto di quest’ultimo a favore dei Templari, in località Badestello. Intanto, in Oltremare, i cavalieri rossocrociati, insieme agli altri ordini, difendono strenuamente Gerusalemme e altre roccaforti cristiane. Nell’agosto del 1204, Maria, figlia di Giusto, cittadino molfettese, decide, per rispettare la volontà paterna, di offrire la piccola chiesa di San Nicola, spettante al genitore per diritto di patronato, all’ordine dei Templari. In quegli anni le popolazioni della nostra provincia sono afflitte da una grave crisi economica che colpisce non solo le classi più povere, ma anche quelle medio-alte. Quest’ultime si vedono costrette, per sopravvivere, o soltanto per mantenere l’antico decoro, a vendere parte delle loro proprietà. Nel marzo del 1205, ottavo anno del regno di Federico II, Maiorella, moglie del cavaliere Girabello, “per la perdurante malvagità dei tempi”, vende, con il consenso del marito e di altri familiari a Giovanni Salvagio, maestro della Casa di Ruvo per conto dell’ordine del Tempio, una casa confinante, tra l’altro, con il cimitero della chiesa di San Nicola. Nei camposanti dell’ordine, sicuri e ben custoditi, potevano essere seppelliti in luogo consacrato, coloro che avessero fatto donazioni, lasciti o elemosine. Questo documento e l’altro dell’agosto 1204,già trascritti da Francesco Carabellese nelle ‘‘Carte di Molfetta’’, volume VII del Codice Diplomatico Barese, sono state opportunamente integrate nel testo da de Santis. Sicché, l’acquisizione della chiesa di San Nicola consentiva alla Casa Templare di Molfetta di costituirsi in precettoria. Per gli anni successivi, disponiamo di altre notizie che, benché frammentarie, testimoniano il consolidarsi dei beni dei rossocrociati a Molfetta. Quando nel 1229 lo scomunicato imperatore Federico II si accordò a Giaffa con il Sultano d’Egitto, entrò in Gerusalemme, e si sedette sul trono come Re della Città Santa, la cristianità gridò al sacrilegio, ed i Templari furono tra i più accaniti nemici dello Svevo. Purtroppo, nel 1244, dopo alterne vicende, la città fu espugnata dai turchi e tolta definitivamente all’occidente cristiano. La precettoria molfettese, quasi in controtendenza con l’andamento delle fortune dell’ordine, che si avviava al declino, aumentava la sua rilevanza economica, con il possesso, tra l’altro, di due frantoi. Intanto, nella primavera del 1291, i mamelucchi conquistavano San Giovanni d’Acri, ultima roccaforte cristiana in oriente. La grande epopea delle Crociate si consegnava al giudizio della storia, con le sue luci e le sue ombre. Sedici anni dopo, una tragedia si abbatteva sulla Casa del Tempio. Il 13 ottobre 1307, per ordine di Filippo IV il Bello, re di Francia, tutti i cavalieri francesi furono arrestati e consegnati senza processo all’Inquisizione, con accuse assurde ed infondate, quali eresia, immoralità, delitti contro natura. Dopo qualche tentativo di resistenza, anche il Papa Clemente V ordinò l’arresto generale di tutti i Templari d’Europa, dopo averne soppresso l’ordine. La grande potenza economica raggiunta, e la conseguente possibilità di condizionare e limitare politicamente il predominio del Re, furono sicuramente alla base di quel misfatto. Nel 1314, dopo alterne e fosche vicende, il Gran Maestro dell’Ordine Jacques de Molay ed altri suoi compagni, avendo rifiutato, dopo un processo farsa, la prigione perpetua, furono mandati al rogo dalle autorità governative francesi. L’immenso patrimonio fu in parte incamerato dalla Corona, in parte trasferito all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme. Anche in Puglia i beni del Tempio subirono confische e trasferimenti di proprietà. Un documento molfettese del 1308, pubblicato in questo estratto, ed edito per la prima volta senza regesto e senza indicazioni di fonte da Giovanni Guerrieri nel 1909, testimonia quanto fossero estese le proprietà dei rossocrociati anche nella nostra città. Tremiladuecentoventi quintali di olio posseduti dalla precettoria molfettese furono ipotecati ad un gruppo di mercanti fiorentini, a fronte di un prestito di mille fiorini, pari in moneta regnicola a dodicimila carlini d’argento. Non va sottaciuta l’abbondanza della produzione olearia molfettese dell’epoca. I toscani avevano impegnato tanto denaro, contando sulla nota disponibilità finanziaria dell’ordine, ma dopo l’arresto dei cavalieri e la confisca dei beni, cercarono di recuperare in qualche modo il prestito. Dopo aver protestato presso i competenti organi napoletani Lippo Scafarelli ed i suoi soci ottennero soddisfazione: se entro il mese di febbraio 1308 l’olio non fosse stato venduto, sarebbe rimasto legato per pignoramento ai fiorentini, che avrebbero potuto venderlo al miglior prezzo, trattenendo per loro i mille fiorini. Come s’è detto, buona parte dei beni del Tempio, finirono nelle mani dei giovanniti. La precettoria templare di San Nicola passò alle dipendenze del priorato di Barletta dell’ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, e si costituì in commenda, insieme alla grancia di Santa Maria di Sovereto di Terlizzi. La tragica fine dei cavalieri del Tempio ha ispirato una vasta letteratura, spesso fantasiosa, compresi romanzi e film di dubbio valore, oltreché, naturalmente, numerose e serie opere di storia. Va detto comunque che il giudizio sulla reale colpevolezza dei cavalieri, anche all’interno di un quadro di esclusiva ortodossia religiosa, è tuttora controverso. Il lavoro di Marco Ignazio de Santis, condotto come di consueto con disamina rigorosa ed esaustiva delle fonti disponibili, alcune finora ignote, ci offre uno squarcio di storia medievale molfettese, rilevante anche dal punto di vista economico. Mi preme infine sottolineare come, anche in questa occasione, lo storico molfettese abbia dato una prova ulteriore della sua perizia filologica. Lascio alle sue stesse parole la descrizione dell’intervento sulle antiche trascrizioni del Carabellese: “Per l’epoca sveva, in particolare, una donazione del 1204 e una compravendita del 1205 dal Carabellese trascritte da pergamene mal conservate dall’umidità, sono state sottoposte ad un’attenta analisi filologica e contenutistica per supplire alle lacune testuali prodotte dalle svaniture dell’inchiostro e giungere con opportune integrazioni ad una “restitutio textus”, che consentisse una più aderente comprensione dei due documenti esaminati qui riportati in appendice”.

Autore: Ignazio Pansini
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