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Grande impegno della marineria di Molfetta nel ridurre l'inquinamento marino La conferenza promossa dalla Fidapa mette in evidenza le buone pratiche dei nostri marinai
21 maggio 2017

MOLFETTA – Interessante e attualissimo incontro quello promosso nella serata di ieri dalla BPW Fidapa Molfetta, sul tema “Cosa ci lasciano le navi? Storia dell’inquinamento marittimo”.

Relatore l’ing. Leo Murolo, il quale si è soffermato sulla gestione portuale e sulle prescrizioni IMO (International Maritime Organizzation), ossia sulle direttive dell’agenzia delle Nazioni Unite che legifera su salvaguardia della vita umana in mare, inquinamento marino ed emissioni gas di scarico.

Le imbarcazioni sono, dunque, soggette non solo alla legislazione nazionale ma anche a quella internazionale.

Tali prescrizioni si riflettono anche sulle innovazioni tecnologiche navali a partire dalla fase progettuale delle imbarcazioni.

«L'accorgimento tecnico più importante, per le petroliere e le chimichiere, è stato il doppio scafo (o doppio “guscio” – n.d.r.)» – ha ricordato l’ing. Murolo, che ha evidenziato l’obbligo dell’isolamento di oli e carburanti.

Tra i vari aspetti messi in evidenza importante è lo smaltimento dei liquami, in particolare per le imbarcazioni da crociera.«Una nave passeggera produce circa 20 tonnellate di liquami al giorno. Smaltirli è un processo molto complicato – ha ricordato l’ing. Murolo – a tale scopo sono state adottate colture batteriche che se ne nutrono» consentendo di ridurre il loro impatto ambientale.

Tra qualche tempo, inoltre, sarà obbligatorio l'uso di un registratore dei gas di scarico, altro aspetto fondamentale per ridurre l’inquinamento marittimo.

L’ing. Murolo si è anche soffermato sulle buone pratiche messe in atto dai marittimi e dai pescatori: «Oggi i marittimi devono seguire corsi di formazione, sono dei veri professionisti».

Sulla stessa linea d’onda l’intervento di Mimmo Facchini, armatore molfettese, che ha evidenziato le buone pratiche che gli equipaggi dei nostri motopescherecci mettono in pratica, a partire dal recupero delle plastiche in mare durante le operazioni di pesca, che vengono differenziate a bordo e poi conferite a terra.

L’armatore Facchini ha, inoltre, evidenziato la collaborazione in atto con gli studenti dell’Università degli studi di Bari - Ingegneria Gestionale (che, grazie all’associazione Sailors, sono supportati dalla nostra marineria nel loro progetto Pacman, che è finalizzato al riutilizzo e alla messa a sistema dei rifiuti in plastica sottratti al mare – n.d.r.).

Il dibattito conclusivo ha messo in evidenza anche l’impoverimento dei nostri mari, o meglio del pescato a causa della «sovrappopolazione di alcune specie».

L’incontro, moderato dall’archeologa Alessia Amato, specializzata in archeologia marina, si è svolto nell’ambito della mostra intitolata "Molfetta... di Mare e d'amore", allestita nella sala dei Templari e che propone  strumentazione ed immagini d’epoca nonché modelli in scala di imbarcazioni.

© Riproduzione riservata

Autore: Isabella de Pinto
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Erano gli anni '70, così scriveva Gaia Book ne “Un pianeta da salvare”. – Oggi i mari sono un vero e proprio “pozzo nero” in cui confluiscono con continuità enormi quantità di fanghi e minerali provenienti dalla terraferma. Noi stiamo chiedendo al mare di accettare anche quantità sempre crescenti di materiali generati dall'uomo, dagli scarichi delle fognature a quelli industriale e agricoli, tutti quanti ricchi di sostanze chimiche contaminanti. Per non parlare delle scorie radioattive. Gli oceani possono svolgere una preziosa funzione agendo da “depuratori di scorie”, ma la questione è qual è la quantità massima dei rifiuti che si possono smaltire senza provocare danni? Vale a dire: quale tipo di scorie gli oceani sono in grado di assorbire, dove possono meglio ospitarle, quanto ci impiegheranno a degradarle attraverso i processi naturali e soprattutto quale livello di conseguenze negative siamo disposti ad accettare? A tutto ciò oggi non si presta sufficiente attenzione. Ogni anno scarichiamo nei mari centinaia di nuove sostanze chimiche che si aggiungono alle migliaia già presenti, senza avere la minima idea del loro potenziale impatto. Così perfino nelle profonde fosse oceaniche, è addirittura nell'Antartide, si individuano sostanze tossiche create dall'uomo. Questo fenomeno è il risultato dei “sistemi circolatori” globali, processi di cui comprendiamo ben poco. Gli oceani subiscono l'impatto dei rifiuti dell'uomo sia per gli scarichi deliberati, sia per il dilavamento della terraferma. Mano a mano che l'inquinamento aumenta, un'alta percentuale di scorie viene a depositarsi nelle acque biologicamente produttive dell'estuario e delle zone costiere. Qui i veleni entrano nelle catene alimentari marine, accumulandosi nelle specie superiori. Questo processo di “bioamplificazione” è stato evidenziato negli anni '60 in Giappone dalla malattia di Minamata, un avvelenamento di metil-mercurio dovuto al consumo di tonno con alte concentrazioni di mercurio. Le vittime note, a tutto il 1975, erano state 1.500. – Cosa è stato fatto in questi anni?
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